Come scrive oggi Antonio Troisi su Politica Insieme ( CLICCA QUI ) alla gestione dei finanziamenti europei si dovrà andare con un sano pragmatismo. Che poi sia quello lombardo di tradizione austro ungarica, come con una logica simpaticamente partigiana dice lui, o uno diverso poco cambia. L’importante è che, appunto, la serietà e il pragmatismo la facciano da padrone. Magari aggiungendo una particolare attenzione al bene comune che non è dicitura astratta, un qualcosa che resti a livello di auspicio, bensì una linea d’indirizzo preoccupata dell’interesse più generale e non di esigenze parziali.
Si tratta dunque di capire che siamo dinanzi al momento delle scelte, dell’individuazione della scala delle priorità da seguire e dello stabilirne i modi e i tempi adeguati. I soldi non arriveranno affatto tutti subito e saranno, ovviamente, oggetto di una valutazione anche da parte di tutti gli altri paesi europei concorrenti a garantire un flusso finanziario la cui decisione rappresenta un’assunzione di responsabilità comune, visto che per la prima volta si comincia a parlare di Debito pubblico assunto dall’intera Unione.
Viene da dire che ha potuto più il Coronavirus che le condizioni cui ci ha portato la politica liberista seguita in Europa negli ultimi dieci anni circa. Un fiume di denaro comincerà ad aggiungersi a quello che la Bce ha già elargito grazie alla politica di Mario Draghi, cui va ascritto il merito di far capire ai tedeschi e agli oltranzisti del Nord Europa quanto fosse necessario evitare il tracollo di gran parte dei paesi del Vecchio continente.
La diversa visione che si è imposta in Europa e nella maggior parte delle cancellerie dell’Unione ha portato all’intesa faticosamente raggiunta a Bruxelles. Oggi abbiamo dinanzi un quadro notevolmente diverso rispetto a quello che portò, nove anni or sono, in Italia alla nascita del Governo Monti e la Grecia in pieno “default” e messa sotto tutela dalla cosiddetta “trojka”.
E’ arrivato bengodi? Certamente no. I finanziamenti previsti, di cui una discreta parte a fondo perduto, dovranno essere finalizzati a limitare i danni della crisi economica aggravata dalla pandemia e a provare a mettere la struttura produttiva e istituzionale europea, almeno, in grado di competere con le altre grandi economie mondiali. Quella cinese si è già rimessa in movimento e, prima o poi, seguirà anche quella americana. Giungono i primi segnali di una lenta ripresa ricavabili dall’andamento del petrolio che, proprio due giorni fa, ha registrato la previsione da parte dell’Opec Plus di una riduzione per il prossimo agosto dei tagli alla produzione pensati già prima della pandemia per contenere le perdite del valore del cosiddetto oro nero.
Si tratta adesso di cominciare a ragionare sul modo migliore di utilizzare ciò che è previsto finire a favore dell’Italia. C’è bisogno di una organica e sostenibile politica industriale, di indirizzare Scuola e Università verso nuovi modelli formativi, creare veri posti di lavoro, magari sostenendo nuove linee d’intervento che riguardino l’innovazione, i servizi, le infrastrutture, le manutenzioni, l’economia civile e circolare che trovano nel Terzo settore un campo d’impegno già solido e in grado di fornire verifiche e conferme già disponibili.
Inevitabile prendere le mosse da una valutazione generale della nostra situazione politica e del nostro quadro parlamentare. Non si potrà prescindere dal ruolo d’indirizzo ultimo che, in una Repubblica parlamentare come la nostra, è esclusiva prerogativa di Camera e Senato. Il Presidente della prima, Roberto Fico, è stato chiaro al riguardo ieri stesso.
La piena responsabilità che devono assumere le Camere servirà anche a superare tutte le criticità emerse nel pieno dell’emergenza quando Giuseppe Conte è stato costretto, e si deve riconoscere che lo ha fatto sostanzialmente bene, a ricorrere ai tanto contestati DCPM che hanno fatto storcere il naso a più di un costituzionalista. Una pagina da lasciarci alle spalle con la speranza di non doverla riaprire a seguito di un nuovo esplodere della pandemia.
Il Governo è nato com’è nato. Frutto di uno stato di necessità per rispondere a quella inopinata crisi portata agli estremi da Matteo Salvini di cui oggi si scoprono le puntate sbagliate fatte su cavalli sbagliati. Ci sono voluti gli oltre sei mesi d’emergenza Covid -19 per far capire alla maggioranza dei 5 Stelle, che nel frattempo si sono persi dei pezzi per strada, al Pd e al resto della sinistra quanto sia necessario dare un assetto più solido ad una maggioranza improvvisata e puntare verso il fine legislatura o, almeno, ritornare in armi solo all’indomani di quell’appuntamento importante che si chiama riforma elettorale. L’idea di pensare ad arrivare fino al termine naturale della legislatura è un bene perché dobbiamo mettere nel conto il già citato pericolo di una nuova fase pandemica e, soprattutto, perché, come accade dopo un naufragio, si deve pensare a mettere in salvo il salvabile.
La produzione, la disoccupazione, la ripresa dei consumi, la necessità di rimettere meglio in piedi la sanità e quella di assicurare la ripartenza scolastica a quasi 8,5 milioni di studenti e 835 mila tra maestri e insegnanti costituiscono le principali questioni sul tavolo. In realtà, tante altre cose non funzionano. A partire dalla Giustizia, dai ritardi che abbiamo in campo scientifico, lo stato semi comatoso in cui si trovano le autonomie locali, un sistema fiscale da riformare e così via.
E’ chiaro, però, che se lo stato di emergenza finisce per decreto non possiamo ignorare che restano le conseguenze di questa ondata distruttiva che, adesso, ci costringe come sopra detto a salvare il salvabile.
E’ altrettanto chiaro che si deve intervenire sull’ordinario ben sapendo che le condizioni del Paese, già prima dell’arrivo della pandemia, costringevano a pensare oltre e a preoccuparsi di avviare un processo di trasformazione radicale. Quello di cui abbiamo parlato nel nostro Manifesto ( CLICCA QUI ), per di più, lanciato in tempi non sospetti.
Restiamo convinti che le trasformazioni però necessitino di una nuova classe dirigente, di nuovi partiti e della partecipazione, vera e realmente assicurata, delle parti vitali della società italiana. Anche se 5 Stelle e Pd, davvero, s’impegnassero per portare a compimento la legislatura, che è oggettivamente un loro interesse, ma anche interesse generale del Paese, dovrebbero avere la ragionevolezza di riconoscere che essi rappresentano una porzione ben limitata delle parti sociali che sorreggono il Paese.
Il Pd, l’ha acclarato il susseguirsi di moltissime elezioni tenute negli ultimi anni, rappresenta oramai solo parte dei centri cittadini, a conferma della perdita della rappresentanza dei ceti tradizionalmente collegati alla sinistra, del ceto medio, dei professionisti, delle partite Iva, oltre che dell’esteso mondo delle periferie urbane.
I 5 Stelle non hanno mai espresso una rappresentanza sociale realmente organica ed organizzata avendo sulla base dei “vaffa” urlati per lunghi anni acquisito i consensi sulla base meta politica della critica estrema alla politica, alle grandi imprese e a tutto ciò che, insomma, si riferisse a quell’ordine “costituito” nell’economia, nella finanza e nel sistema istituzionale senza neppure spendere del tempo a capire, invece, l’articolazione di questi mondi in cui nessuno è in grado di identificare solo nemici e resistenze, tanto il pluralismo ha finito per pervadere non solo la politica, ma anche le articolazioni economiche, civili e l’intero mondo del lavoro. Per questo sono stati definiti “populisti”.
La debolezza di questo radicamento sociale, frutto anche dell’incapacità, una volta giunti al governo, d’interpretare le esigenze di tutti quei votanti che avevano premiato il movimento di Beppe Grillo soprattutto nel Sud d’Italia, è emersa in grande evidenza. I 5 Stelle non sembrano al momento in grado, ad esempio,neppure d’interpretare le attese di un ceto medio che si sta impoverendo, i cui figli stanno ingrossando le liste dei disoccupati, dei non occupati o di chi ha un’occupazione precaria. Il reddito di cittadinanza, che ha finito per non rispondere pienamente alle attese del loro bacino elettorale, si è rivelato in ogni caso un intervento parziale e, forse, meglio sarebbe stato utilizzare le risorse impiegate in modo da creare veri più posti di lavoro e favorire nel mercato l’arrivo di nuove aziende, nuove cooperative, altre partite Iva.
Se quindi il “vaffa” non va più bene, perché in parte oggi potrebbe essere indirizzato anche verso di loro, è necessaria un’ampia riflessione sulle mancate risposte a problemi e situazioni che tuttora permangono.
La destra non sta decisamente meglio. Sta pagando gli errori di una valutazione non realistica del quadro internazionale da cui l’Europa è stata costretta ad un cambio di rotta. Salvini e la Meloni, infatti, non sono andati oltre l’interpretare un generico senso d’insicurezza e di ostilità verso tutto ciò che sa di innovativo, di diverso, di complesso, e riuscire a raccogliere attorno alle loro aspirazioni di governo un consenso che non fosse solo basato su un qualcosa di a- politico, qual è in fondo quella di un nazionalismo incapace a disegnare un diverso porsi di fronte ai nuovi fenomeni economici e della geopolitica regionale e internazionale. Se la sinistra ha finito per parlare non tanto di questioni che le sarebbero dovute essere proprie, quale quella del lavoro, la destra non riesce ad interpretare le esigenze dell’impresa e delle trasformazioni in essa insistenti a causa di un quadro mondiale che non può essere demonizzato o ostracizzato, bensì compreso e, nonostante tutto, accettato per quel tanto che basta, semmai, per limitarne i conseguenti effetti negativi che comporta. Come per la sinistra, c’è da chiedersi davvero quale sia il mondo economico e civile rappresentato dalla destra che possa continuare a restarle vicino nonostante l’oggettivo isolamento internazionale in cui vive e l’ininfluenza che dimostra di avere sulle scelte che contano.
L’abbiamo già scritto: anche le reazioni all’accordo raggiunto a Bruxelles dimostra un’oggettiva incapacità a rappresentare una forza capace di declinare un’aspirazione ad essere entità di governo. Dopo aver criticato ad alzo zero l’arrivo di un’impensabile boccata d’ossigeno solo pochi mesi fa, Salvini comincia a parlare di “buttare giù le tasse”. E perché non eliminarle del tutto, ci sarebbe da chiedergli spiritosamente per allentare la polemica? E’ tutto quello che sa proporre? Che senso ha parlare di un’ipotesi sicuramente da prendere in considerazione, al punto che anche l’esecutivo di Giuseppe Conte promette qualcosa in questa direzione, ma che dovrebbe essere inserita in un ben più ampio e organico piano di ripresa?
In questo contesto, dunque, cosa è auspicabile che accada? Per prima cosa, tutti gli attori di questo che potrebbe essere, assieme, un dramma, una farsa oppure, speriamo, un’opera seria, dovrebbero riconsiderare i propri limiti. Capire che il Paese reale attende dai propri governanti un comune impegno ad affrontare le tante cose che l’affliggono. Capire che non si tratta di partecipare ad un’abbuffata e di non perdersi solo in una trama il cui ordito è fatto dalla ricerca di spezzoni di finanziamenti da gestire per rispondere a quegli interessi che poi garantiscono sostegno dei giornali e nel corso delle campagne elettorali.
Soprattutto, occorrerebbe ben distinguere ciò che è oggettivamente gestibile nel quadro politico e istituzionale attuale e ciò che, invece, anche questo lo abbiamo più volte ripetuto, dev’essere lasciato ad un nuovo Governo e a un nuovo Parlamento. Quelli che si spera emergano dopo che, emanata una nuova legge elettorale, sia consentita l’effettiva partecipazione dell’intero Paese o, almeno, di una maggioranza solida e coesa in grado di programmare il futuro guardando ad un orizzonte proteso almeno verso i prossimi cinque, se non addirittura dieci anni a venire.
Sperando che, in ogni caso, questo sia ben fatto, non sulla base di una visione precostituita, ma ponendosi davvero in relazione con le esigenze più profonde del Paese, portate in maniera realistica e sostenibile a confrontarsi con quanto di più corposo si delinea nel resto del mondo.
Giancarlo Infante
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