L’ Europa sembra attonita, come fosse sospesa in un limbo, in attesa del responso delle urne, che si apriranno negli USA domenica prossima, 5 novembre.
Come se attendesse non tanto, come nelle altre occasioni, un esito elettorale, quanto una sorta di “sentenza”, un pronunciamento che, in questo momento, assume un valore, a dir poco, epocale, che la tocca da vicino, in certo qual modo la sovrasta e condiziona pesantemente le sue prospettive interne ed internazionali.
È in attesa di sapere se vinca Trump o piuttosto la Harris, immaginando come adattarsi all’uno o all’altro presumibile scenario. Avrebbe dovuto, al contrario, sviluppare una propria strategia, sovraordinata all’esito del voto americano.
In altri termini, che vinca Donald Trump o piuttosto Kamala Harris, per l’Europa, in ogni caso, non è più tempo che possa venir meno all’obbligo di chiarire la comprensione che ha di sé stessa; la consapevolezza del ruolo cui non può sottrarsi perché è la sua stessa storia a fargliene carico.
Quali ambizioni coltiva l’Europa, ammesso che ne abbia? È incartata e rattrappita su di sé. Si comporta come se la sua storia, anziché una straordinaria architettura di idee, di valori e di esperienze, necessarie per interpretare la nuova fase della vicenda umana verso la quale ci sospingono le “transizioni” che premono alle porte, sia, piuttosto, vissuta quasi fosse una palla di piombo al piede che la appesantisce e la frena. Il suo sguardo è volto all’indietro; fatica a a liberarsi dai fantasmi del passato; si inchioda da sola nei lacci del sovranismo.
Peraltro, anche i paesi che più schiettamente si dichiarano europeisti mostrano spesso la corda e, in definitiva, in più occasioni, declinano questa loro vocazione, per lo più, in funzione degli interessi nazionali del momento.
Se, per un verso non puo’ esaurirsi nell’asse franco-tedesco, per altro verso l’Europa non ha sufficiente coscienza della sua dimensione mediterranea. Dovrebbe chiedersi seriamente che cosa oggi essa rappresenti per gli Stati Uniti d’America: l’altra faccia dell’Occidente e, dunque, un partner da rispettare e da cui non si può prescindere, una sorta di oggetto del desiderio, un’appendice, per quanto al di là dell’Atlantico, del proprio suolo oppure una colonia, un territorio da sottomettere e colonizzare, da arruolare in una strategia che pur non le spetta concorrere a definire? Oppure, un cuscinetto che, interposto tra il proprio versante orientale e la nuova forma del reaganiano “impero del male”, le consenta di rivolgere altrove la sua attenzione, verso il Pacifico e le strategie di contenimento della Cina?
Deve prevalere il sentimento di un’idealità comune oppure anche l’Europa va messa alla prova da un’America che vuote tirare i remi in barca, proclamare ancora il proprio primato e, nello stesso tempo, curare le proprie ferite?
Siamo parte essenziale dell’Occidente, i cui valori, nel mondo multipolare, oggi possono essere riaffermati solo grazie ad una profonda riconsiderazione dei suoi fondamenti.
Domenico Galbiati