A Natale le diseguaglianze e le disparità sociali sono perfino più amare e fanno male più di quanto non sia in altri momenti. Le povertà, in ogni forma, quella economica, ma addirittura di più le carenze educative, le povertà culturali, soprattutto quando feriscono i bambini, appaiono nella loro cruda realtà, si potrebbe dire, una diminuzione di umanità. E’ francamente inaccettabile in una società che, almeno fino ad ieri, ha celebrato i fasti del suo inarrestabile sviluppo e solo dai giorni della pandemia è costretta, ammesso che lo voglia fare, a riconsiderare francamente sé stessa.

Gli ultimi saranno i primi? E’ una promessa che vale solo in chiave escatologica? Oppure si tratta di un compito che ci riguarda e ci tocca fin d’ora?

Entrare in queste periferie – laddove, in definitiva, viene meno quella condizione di piena ed effettiva libertà che va ben oltre il godimento dei diritti civili – entrarvi non sciorinando statistiche o eleganti analisi sociologiche, ma “esistenzialmente”, cioè cercando di capire cosa significhi oggi – nella società della conoscenza e della comunicazione – soffrire un limite, più o meno severo, sul piano di una autentica autonomia di giudizio, in ordine a quella capacità critica che ontologicamente appartiene ad ognuno, e poi da queste periferie risalire faticosamente al cuore del nostro sistema sociale, non ci consentirebbe, forse, di chiarire, per tutti,  e a fondo, quale sia l’effettivo ordine di valori per cui valga la pena vivere? E se fossimo così disincantati da poter credere davvero che anche oggi tocchi ai poveri, come ai pastori di Betlemme, annunciare l’ evento, anzi l’ “Avvento”, la novità possibile di una vicenda impensabile ed inaudita, umanamente più ricca?

Non si tratta, in nessun modo, di cedere il passo a suggestioni emotive che servono solo ad appagare sentimentalmente, di fatto confermandola, la nostra cattiva coscienza. Non abbiamo bisogno di un Natale zuccheroso, ma di uno sguardo sincero e schietto che osservi la scena del nostro contesto civile per quello che effettivamente è, con le luci e le ombre dure che ne disegnano il profilo.

Quando diciamo “la persona al centro” salmodiamo un fervorino edificante che anestetizza la nostra coscienza, recitiamo il mantra del nostro perbenismo sociale? Oppure poniamo il principio ordinatore di un progetto politico- programmatico di cui intendiamo farci carico ?

Siamo autorizzati a sentirci liberi, interiormente liberi, in un mondo percorso da gravi diseguaglianze e da ingiustizie sociali così profonde da umiliare i nostri simili? A maggior ragione in un contesto “globale” che accresce, anziché ricomporre, le disparità andrebbe indagata a fondo la relazione che corre tra libertà personale di ognuno e
giustizia sociale.

E’ certo che non ci mancano gli strumenti di analisi e le modalità operative per ridisegnare lo “skyline” del nostro modello di crescita e di sviluppo. Del resto, le disparità sociali non convengono a nessuno, neppure a chi scommette ed investe sullo spirito della “globalizzazione” che, di sua natura, dovrebbe evocare una fluidità ed una scioltezza generalizzata dei rapporti sociali che dovrebbero rispondere meno ad una struttura piramidale del contesto civile, di più a una disposizione a rete. Senonché le diseguaglianze tracciano solchi invalicabili, generano “enclave” che fanno a pezzi la continuità spazio-temporale e lo spirito di una stagione della storia che si annuncia e dovremmo saper esplorare. A maggior ragione, è necessario ripartire da lì e superare, riassorbire le diseguaglianze dentro quel comune orizzonte di senso che, in caso contrario, sarebbe destinato a sfilacciarsi irrimediabilmente a danno di tutti.

Domenico Galbiati

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