“L’ opera di rinnovamento fallirà se in tutte le categorie, in tutti i centri non sorgeranno degli uomini disinteressati pronti a faticare ed a sacrificarsi per il bene comune”. Sono le parole di Alcide De Gasperi che Draghi ha ricordato presentando al Senato le linee del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
Lo stesso Presidente del Consiglio, dunque, ha, sia pure implicitamente, segnalato una qualche analogia tra il processo di ricostruzione morale e materiale del Paese negli anni dell’immediato dopoguerra ed il piano di superamento della pandemia e delle sue conseguenze che l’Italia è chiamata ad affrontare oggi.
Allora il quadro politico era attraversato da cima a fondo da una contrapposizione che riproduceva al nostro interno addirittura il muro contro muro della guerra fredda, ma, nel contempo, le forze politiche venivano da una comune esperienza di lotta al nazi-fascismo e dall’impegno condiviso di scrittura della Carta Costituzionale.
Oggi, al contrario, formalmente siamo in un regime di unità nazionale, senonché il contesto è comunque contrassegnato da una cruda dialettica bipolare, in questa ultima fase appena un po’ addomesticata dalla comune appartenenza alla maggioranza di governo, a sua volta connessa all’ emergenza pandemica. Ad ogni modo, la differenza più rilevante è forse rappresentata dalla carica ideale, dalla motivazione, dalla voglia di crescere di un Paese che allora assaporava la freschezza della libertà ritrovata.
L’ Italia aveva accumulato la sofferenza e l’umiliazione della dittatura, di una seconda guerra mondiale nel breve arco temporale di trent’anni, della guerra civile. Un Paese povero, diviso ed avvilito dalla sconfitta, ha ripreso in mano il proprio destino, ha ricostruito un clima di coesione pur nell’ asprezza del confronto politico, ha compiuto scelte fondamentali che tuttora rappresentano il pilastro della sua vita civile e democratica.
Ha sviluppato un sentimento di appartenenza ad un orizzonte comune pur vivendo sul confine della cortina di ferro, attraversato da un imponente fenomeno di migrazione interna. Il conflitto politico è stato vissuto con durezza, ma in modo aperto e schietto.
Senza cadere nella retorica dei laudatori del buon tempo antico, va pur riconosciuto che oggi lo scenario è differente. Il Paese è incattivito, teso, come se vivesse in una permanente “all’erta – ed in fondo ne ha ben d’onde – scosso da un persistente eretismo che coinvolge un po’ tutti. Questo stato d’animo data da prima della pandemia, la quale, se per un verso ha aggravato questo sentimento di precarietà, per altro verso può segnare un punto di inversione di questa tendenza amara. Sono stati scavati solchi profondi nella coscienza degli italiani e c’è chi si è fatti carico di seminarvi manciate di disprezzo e di rancore.
Per quanto possa apparire una domanda oziosa e fuori luogo, potremmo chiederci: chi è stato posto di fronte alla sfida più ardua, a chi il compito più difficile, a De Gasperi oppure oggi a Draghi? “Governare” è, in ogni caso, difficile, sempre che lo si intenda secondo un’interpretazione alta del ruolo che alla politica compete.
Tra la stagione di quegli anni ormai remoti ed i giorni nostri balza agli occhi una dissonanza di fondo. Si viveva allora una società in fondo semplice, più strutturata ed organica. Viviamo oggi un contesto “liquido”, slabbrato, a tratti indecifrabile, difficilmente componibile.
Vivevamo un mondo più prevedibile e rigido, meno flessibile, che oggi si mostra, al contrario, più ricco di soggettività, dunque, proprio in quanto disarticolato, più plastico, potenzialmente, e sia pure a costo di un’impresa complessa, più disponibile ad un disegno che risponda ad un concerto di principi e di valori, purché siano assunti consapevolmente e fatti propri da una collettività capace di riscoprire l’aspirazione al “bene comune”.
Un mondo, in definitiva, più bello, che invoca e sfida la nostra responsabilità. La pandemia ha accresciuto la sensazione d’essere in balia di una storia che si fa da sé, semplicemente “accade”, ma poiché spesso gli estremi si toccano, non è fors’anche l’occasione per cercare di riprendere il controllo degli eventi ? In fondo, come nell’esperienza del naufrago, quando si è sfiorati dall’alea della morte, si riscopre il sentimento della vita e del suo pieno valore.
Insomma, il nostro è un mondo in cui si può ragionevolmente “sperare” oppure no ? Ai credenti spetta il compito di affermarlo e di costruire – anzitutto con gli strumenti della politica – una speranza che non si dà da sé ma rappresenta il compito che anche anche a noi oggi compete. Si potrebbe dire che la società del dopo-guerra era somigliante ad una costellazione, la nostra ad una galassia. Una costellazione consta di pochi elementi chiari e distinti, disposti in un rapporto geometrico cui, sia pure metaforicamente, possiamo attribuire un significato.
Di una galassia apprezziamo la complessiva forma a spirale che dà conto del reciproco coinvolgimento della miriade di elementi che la compongono, senza che ciascuno di loro sia del tutto distinguibile dagli altri, cosi da farne una gerarchia.
Tornando alla frase di De Gasperi, vi compaiono due soggetti: le categorie e gli uomini , le persone. E’ una frase illuminante per ieri e per oggi. A quel tempo, le categorie, i “centri” come li chiama De Gasperi, i luoghi vitali, gli ambiti associativi e di aggregazione della società civile rappresentavano il luogo della possibile composizione del conflitto, la spazio entro cui comporre un equilibrio ed una linea di evoluzione e di progresso condiviso. I cittadini, per lo più, si riconoscevano nelle rispettive categorie, che segnalavano una reciproca appartenenza, rappresentavano spesso un utile complemento “sociale” della loro individuale personalità.
Governare era più facile? Almeno comporre le ragioni di un consenso dialettico eppure accettabile ed, infine, inclusivo era meno indaginoso, purché le tessere di questo grande mosaico sociale fossero valorizzate e rispettate nel loro intrinseco valore di rappresentanza e di attestazione di interessi reali, effettivamente radicati nella dimensione popolare del Paese.
Oggi, in un contesto che, per quanto percorso da potenti correnti di omologazione al pensiero prevalente, vive di una pluralità incommensurabile di soggetti attivi, che aspirano ad una autonomia di giudizio, per quanto non sempre assistita da altrettanta capacità critica, il luogo di composizione del conflitto si è insediato altrove, nell’interiorità della coscienza del singolo cittadino.
Vi sono contraddizioni che solo lì possono trovare una appropriata mediazione, personale, “esistenziale”, cioè assunta consapevolmente come costume di vita ed abito mentale. Questo esige, da parte di chi governa, una capacità di ascolto straordinaria e, nel contempo, la facoltà di ricorrere a quello sguardo lungo che precorre i tempi e, dunque, decide davvero per il ”bene comune” che, in fondo, altro non è se non un mondo che sia vivibile per le generazioni future ed evoca, invece, per ogni cittadino, nella sua singolarità, la capacità di assumere la libertà come dovere, ancor prima che in quanto diritto, cioè l’attitudine a conservare quello limpidezza dello sguardo interiore che gli consenta di giudicare in rettitudine il mondo in cui vive.
Domenico Galbiati