Come Saturno, elevato tra gli dei dell’Olimpo ed immortale, ingoiava i suoi figli per non essere detronizzato, così Grillo costringe i suoi adepti alle “forche caudine”. Letteralmente li “sottomette” all’umiliazione di una nuova consultazione interna. L’ “ira funesta” del fondatore si abbatte su Conte – a suo modo, una sorta di Prometeo – che ha osato spingersi fino a profanare il mito delle origini.
In effetti, Grillo dovrebbe prendersela solo con sé stesso: ha ubriacato ed illuso i suoi, eletti ed elettori, che una volta finito il “divertissment” sono tornati a misurarsi con la realtà del mondo in cui vivono, in solidale compagnia con ogni altro mortale.
Il sogno della “catarsi” e della “palingenesi”, della purificazione e di una nuova immacolata e cristallina fondazione si è dissolto, tra urla, strepiti ed impeti da istrione, in una “pochade” all’italiana. Eppure, all’origine del movimento c’era un momento di verità che anche oggi – forse oggi a maggior ragione – va riconosciuto: la domanda impellente di una convivenza civile viva, partecipata, più giusta e compassionevole, che, al di là dell’ossequio alle forme, sia “sostanzialmente” democratica, solidale e socialmente vissuta, aperta all’attivo concorso di tutti e, singolarmente, di ognuno. In qualche modo, un sogno. Un po’ come rifarsi al mito dell’Isola di Thule…
Questa istanza, tuttora vitale ed insoddisfatta, è stata declinata secondo il codice, sommario e spesso sguaiato, di un’ “antipolitica” che, per quanto non se ne renda conto, ospita in sé il germe della sua dissoluzione, il timer che segna irrevocabilmente il tempo del declino. Grillo ha vissuto sulla sua pelle questa parabola e, non a caso, la vera posta in gioco, il vero motivo della frattura intervenuta, non tanto con Conte, quanto con gli stessi suoi fedeli della prima ora, è costituito dal limite dei “due mandati”. Il quale nella visione di Grillo, oltre che tradire una concezione “naïf” della politica, risponde alla necessità – non necessariamente messa coscientemente a tema – di mantenere i suoi – donne ed uomini approdati nelle istituzioni – in una condizione di perdurante minorità e di costante soggezione nei confronti dell’Elevato, ridotti al ruolo di “portavoce” di un verbo concepito e pronunciato altrove.
Come spesso succede, gli estremi si toccano e, nel caso in esame, nelle pieghe di una presunta democrazia trasparente e chiara come acqua di fonte, si aggirava il demone di un’arroganza senza limiti, che avocava a sé il diritto esclusivo di pensare. In fondo, è comprensibile che, a questo punto, Grillo abbia vissuto l’intera vicenda, non solo come ingratitudine e tradimento, ma soprattutto vulnus insopportabile, inferto al suo “ego”.
Bisogna essere equanimi ed un merito gli va riconosciuto: aver condotto l’onda d’urto della protesta che ha interpretato verso un approdo parlamentare. E qui si impone una riflessione che vale per il Movimento 5 Stelle, come, a suo tempo, per la Lega di Bossi.
L’Italia, con i suoi tanti limiti, non è, ad ogni modo, paese ne da “gilè gialli”, ne da secessionismo violento alla “catalana”. Rifiuta, insomma – e, non a caso, l’hanno compreso i “capi-popolo” della protesta – posture extra-parlamentari. Evidentemente, i lunghi decenni di vita e di esperienza democratica che datano dal secondo dopo-guerra – la prima e l’unica che il popolo italiano abbia effettivamente conosciuto – ha lasciato, ben più di quanto siano disposti ad ammettere i professionisti della denigrazione della “Prima repubblica”, un segno profondo nella coscienza civile dell’Italia e degli italiani.
Per quanto concerne Conte – ma su questo torneremo – fino a prova contraria, va rivisto il giudizio e gli va riconosciuto il coraggio e, ad un tempo, l’azzardo di essersi messo in gioco in un’operazione difficile. Domare l’esorbitante onda emozionale del “vaffa”, riportarla nell’alveo di una visione ancora incompiuta, ma pur orientata ad un progetto ragionevole – lo si condivida o meno – non dev’essere stato facile, anche perché si tratta di un percorso in controtendenza alle derive irrazionali oggi prevalent. Né l’operazione è compiuta, in attesa del prossimo macht. Conte è chiamato a misurarsi con almeno tre sfide che si evincono dalle sue stesse parole.
Cosa intende per essere “progressisti” senza indulgere alle architetture concettuali ed operative della tradizionale sinistra? Come pensa di porsi da “indipendente” pur nella morsa letale del bipolarismo maggioritario? E soprattutto, infine, come vuole affrontare la transizione – immensamente meritoria se gli riuscisse – dal “populismo” a quella dimensione “popolare”, cui anche da altri fronti si guarda oggi con crescente interesse?
Insomma, tre tragitti da seguire con attenzione nei loro prossimi sviluppi, soprattutto nella misura in cui hanno un significato ed un valore oggettivo, al di là dei confini del movimento pentastellato.
Domenico Galbiati