L’ Arcivescovo Mons. Delpini, l’altra domenica, seconda di Avvento, in Duomo a Milano, ci ha invitati a costruire la “politica della speranza”.

Chi siano, in ordine all’impegno politico, i cattolici, cosa possano dire o siano tenuti a fare, è questione che inevitabilmente si pone nella riflessione politica del momento.

Almeno secondo due indirizzi. Il primo considera come vi sia una tradizione, una memoria, una cultura politica, una impronta cattolico-democratica e popolare, impressa nella storia italiana, consolidata nel tempo, che va ripresa, attualizzata, riproposta dentro una terza fase del suo sviluppo.

La politica è un pensiero in itinere, che, anziché rattrappirsi in una astratta postura idealistica, si impegna in un quotidiano “corpo a corpo” con il succedersi degli eventi ed in tal modo misura e svela a sé stesso la sua capacità di incidenza storica. Senonché, fin quando i cattolici continueranno a trattenersi negli erbosi – si fa per dire – pascoli della destra o della sinistra, non potranno sperimentare e conoscere quale possa essere, ancora una volta, nel nuovo tempo in cui ci siamo incamminati, l’efficacia della loro cultura.

Qui il fascino della politica trova, in gran parte, il proprio fondamento.

Quando ci invita a “pensare politicamente”, Giuseppe Lazzati ci spiega come questa dimensione non si esaurisca in una elaborazione intellettualistica, bensì consista in una condizione esistenziale.

Insomma, la politica non è “a latere” della vita, ma la attraversa e la innerva o almeno così dovrebbe essere, sia sul piano personale che collettivo. Ha senso, dunque, che i cattolici, in quanto tali, si occupino di politica, rivendicando questa loro ascendenza ad una visione cristiana dell’uomo, della vita e della storia, a due condizioni: che abbiano qualcosa di originale e di specifico da suggerire, tratto dal loro vissuto, un portato che sia propriamente loro e tale da venir meno ove non fossero loro stessi a porlo.

E – seconda condizione – se tale concorso siano in grado di declinarlo ed offrirlo, nel libero e plurale discorso pubblico, su un piano di parità con ogni altro cittadino, cioè laicamente, senza rivendicare, come talvolta succede, una sorta di superiore giudizio a prescindere, che a loro deriverebbe dal dono della fede.

Insomma, lontani da ogni tentazione integrista. In altri termini, per un verso, contro ogni  presuntuoso nuovismo, il passato è sempre più ricco di quanto si pensi, tendenzialmente inesauribile. Nelle sue pieghe, anche quando si ritiene di averne spremuto ogni sostanza, nasconde pur sempre qualche perla ancora inesplorata. E’ bene ricordarlo in questi giorni che richiamano Don Sturzo, a 150 anni dalla nascita.

In questo senso, per quanto immersi in un contesto epocale radicalmente inedito, non possiamo fare a meno dei padri fondatori e dei nostri maestri. Anzi, le sfide cui andiamo incontro possono rappresentare una griglia, che, in modo sorprendente,  ci permette  di leggere l’attualità perdurante del patrimonio di pensiero e di passione politica di cui è intessuta la nostra storia. Ciò non di meno, siamo spinti ad andare oltre. Non possiamo attardarci nella contemplazione di ciò che è stato.

E’ necessario – ed è il secondo indirizzo da assumere – sciogliere  gli ormeggi ed affrontare una navigazione incerta, verso territori  inesplorati. Restano fermi i valori fondativi, che declinati sul piano della cultura politica, si sintetizzano nel primato della persona e nella ricerca costante, nella costruzione sempre incompiuta, eppure incessante della sua condizione di vera, piena, autentica libertà. Restano fermi i principi che orientano l’azione, i criteri che la dipanano secondo l’evoluzione dei processi in atto.

Resta ferma l’urgenza di recuperare e riproporre – a sé stessi, dato che pure i credenti oggi l’hanno smarrita ed ai loro interlocutori di altra cultura – quella dimensione della trascendenza da cui non si può prescindere e che, molto più di quanto non appaia a prima vista, ha molto a che vedere con la politica. E qui si apre uno spazio privilegiato; si potrebbe dire una particolare “mission”  per i credenti, che immediatamente rinvia a quella domanda di libertà e speranza che, in fondo, rappresenta il cuore e la ragione di ogni progetto politico.

Non possiamo fare a meno di uno sguardo aperto alla trascendenza, né sul piano personale, né nell’ ambito collettivo della convivenza civile. Rappresenta sì un versante che ha una particolare consonanza con una concezione religiosa della vita, ma appartiene a tutti ed a ciascuno. Si tratta di una “cifra” indelebile e costitutiva del nostro essere umani, al punto che, quando ne smarriamo la prospettiva, sia pure inconsapevolmente non possiamo fare a meno di costruircene dei surrogati.

Siamo indotti, si potrebbe dire, ad “immanentizzare” l’inguaribile domanda di trascendenza da cui siamo letteralmente posseduti, come se volessimo, pur di riguadagnarla, costringerla in un orizzonte circoscritto che non la può contenere, se non altro perché, a sua volta, la trascendenza evoca l’infinito. Non si tratta qui di scivolare in un discorso astratto ed aleatorio. Non a caso, ad esempio, molti fenomeni che classifichiamo come “disagio giovanile” si possono descrivere secondo questa lettura, come scorciatoie che non reggono, né potrebbero, il peso dell’ impresa cui dovrebbero attendere, cioè aggirare un vuoto incolmabile.

A questo proposito, andrebbe richiamata una bellissima pagina che Benedetto XVI – allora Cardinale Ratzinger – dedica alla tossicodipendenza. Le stesse ideologie, per molti aspetti, sono ascrivibili a questa categoria del “surrogato”, come impianti concettuali che cercano affannosamente quel senso compiuto che sentono essere insito nella storia, ma resta inattingibile sul piano del mero accadere.

Senza lo sguardo libero della trascendenza è difficile misurare  la reale portata degli eventi; non si comprende quella metrica spazio-temporale che da’ conto della loro natura profonda e della loro effettiva consistenza. Né è consentito cogliere tra le righe, in una sorta di meta-lettura, anche ciò che non è espressamente evidente nell’immediatezza delle cose, bensì rinvia ad un orizzonte più vasto, prospettico, indefinito, eppure capace di orientare, verso un senso non episodico, gli accadimenti che inanellano la vita di tutti i giorni, ma non si esauriscono in essa.

Abbiamo bisogno di uno sguardo profondo, che ci sottragga alla costrizione dell’ istante, ad un eterno presente che, di fatto, ci priva della diacronicità della storia. Uno sguardo che sappia guadagnare una posizione eminente, da cui osservare la connessione degli eventi che via via si succedono, senza smarrire la ricchezza di ognuno, eppure assumendola in una  visione di lungo termine. Una visione che sappia dar conto, verrebbe da dire, delle cause efficienti e, ad un tempo, delle cause formali e finali di ciò che avviene, cioè di un passato che preme sull’oggi e lo sospinge, ma anche di un attrattore, di un domani che misteriosamente lo attira verso un cammino di progressiva ed inesauribile umanizzazione.

Una concezione religiosa  della vita addestra a riscoprire e coltivare quella dimensione della trascendenza che appartiene a tutti, al di là di ogni credo, ed è soprattutto in tal senso che i cattolici possono recare al discorso pubblico un concorso vitale, del tutto originale, ispirato a libertà e speranza.

Domenico Galbiati

 

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