La diffusa aspirazione dei cattolici a rappresentare una voce significativa e, possibilmente, autorevole, nel discorso pubblico che anima il nostro Paese risponde ad una ambizione, ovviamente legittima, eppure, in qualche modo, autoreferenziale, cioe’ orientata a rivendicare la soddisfazione di un apprezzamento generale per l’ originalità ed il rilievo culturale, sociale ed, infine, pure politico, della loro presenza?

In altri termini, c’è almeno un sottile tratto di autocompiacimento, se non di narcisistica contemplazione o , addirittura, com’è stato o com’è tuttora in certe frange, di rivendicazione di una “diversità” da esibire, come se la fede non fosse un dono, ma piuttosto una conquista personale? Oppure, tale aspirazione risponde schiettamente alla consapevolezza che dalla propria visione, ispirata dalla fede e dai valori che la accompagnano, puo’ derivare, all’ intera collettività, un concorso importante a discernere ed intraprendere il cammino impervio che ci sta inoltrando in un divenire dell’umanità che sentiamo premere alle porte, ma di cui ancora fatichiamo a cogliere la fisionomia? Un concorso che, ove mancasse, segnerebbe se non espressamente un vulnus, almeno un certo impoverimento della collettività?

Dunque, un invito stringente ad assumere una responsabilità irrecusabile, in quanto strutturalmente inscritta nell’ordine necessario del cose che abitano il nostro tempo. Nel primo caso, non dico che valga la pena di lasciar perdere, ma quasi. Anzi, si finirebbe per dar ragione a coloro che ritengono essere la fede cosa dell’altro mondo, cosicché chi la pratica si apparta e, da sé, si circoscrive in una comunità separata, la quale, sostanzialmente, non è legittimata a prendere parte al discorso pubblico che impegna ogni altra istanza che viva nel Paese. Insomma, varrebbe, per la comunità dei credenti, lo stesso invito rivolto alla singolarità di ognuno di loro che, con la fede, se la sbrighi da solo, senza rompere le scatole altrove.

E’ necessario, al contrario, che i cattolici si chiedano se, riportando le ansie e le paure, le inquietudini e le passività, le inerzie e le rassegnazioni, ma, nel contempo, le domande di senso, le attese e le speranze del nostro tempo nel perimetro di una concezione cristiana della vita, siano in grado di offrire, non a sé stessi, bensì alla collettività, un discernimento che chiarifichi i nodi che, da più parti, ci assediano.

Dovremmo, in primo luogo, decidere a monte, quale sia – come lo chiama Heidegger – lo “stato d’ animo originario”, cioè la cifra interpretativa, la cornice intenzionale destinata a contenere ed orientare la nostra visione del momento storico, la lettura e la comprensione delle provocazioni che reca con sé. Cornice che deriva da una sorta di intuizione, da una conoscenza per empatia del nostro tempo che precede l’ esercizio della ragione e ne dilata, secondo l’invito di Papa Benedetto, il raggio d’ azione. Qual è, in altri termini, da credenti, l’atteggiamento spirituale appropriato con cui affrontare le transizioni d’ epoca che oggi accompagnano il nostro vivere quotidiano? Riteniamo di attraversare una stagione oscura, avversata da pericoli incombenti che impongono una postura difensiva e di chiusura al mondo oppure avvertiamo come il nostro tempo, provvidenzialmente, soffra, secondo l’ insegnamento di Paolo, le “doglie del parto”?

La risposta a questo dicotomia rappresenta uno dei pilastri fondativi di una visione del divenire che sia di ispirazione cristiana. Penso che dovremmo tornare a queste parole di Papa Giovanni : “Nello stato presente degli eventi umani, nel quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono piuttosto da vedere i misteriosi piani della Divina Provvidenza che si realizzano in tempi successivi attraverso l’opera degli uomini e spesso al di là delle loro aspettative…..”.  Non sono state pronunciate in un momento qualunque, bensì nel discorso introduttivo del Concilio Vaticano II, l’11 ottobre 1962.

Riflettono quell’intuizione spirituale di cui lo stesso Pontefice di Sotto il Monte ha detto e dalla quale è nato il proposito, sorprendente ed inatteso, di convocare il Concilio. Ci offrono uno lampo di luce in quanto a filosofia della storia e, allo stesso tempo, una chiave di lettura di ciò che, da allora, è andato via via maturando nel mondo cattolico. Se osserviamo la gamma di eventi che si accalcano e si embricano l’uno sull’altro, pare si confondano in un labirinto indecifrabile, del tutto oltre la nostra capacità di interpretarli e darne conto.

Eppure, sembrano rispondere ad una intenzione comune appena percepibile, come se l’umanità oggi stesse scalando gli ultimi tratti di una parete impervia per giungere infine ad un crinale da cui lo sguardo può distendersi sul paesaggio di un mondo nuovo. Come se le nostre generazioni fossero una sorta di “Mose” collettivo” chiamato ad attraversare il deserto e poi raggiungere la sommità dell’Oreb, da cui guardare la speranza di un mondo più solidale, più ricco di umanità, che toccherà ad altri, dopo di noi, abitare

Le migrazioni; lo sviluppo incessante delle scienze, le tecnologie – soprattutto “bio” – che ne derivano; la crescita esponenziale della comunicazione; la digitalizzazione che muta la fisionomia dei nostri stessi processi cognitivi ; la crisi ambientale; la dimensione “planetaria” di molti processi, che, ad esempio, la pandemia ha gia’ violentemente imposto alla nostra attenzione; l’incedere caotico delle relazioni internazionali secondo un nuovo indirizzo multilaterale: si tratta di aspetti ognuno dei quali vale, di per sé, una rivoluzione e, nel loro accadere congiuntamente, ci mettono nell’angolo di una inderogabile riflessione antropologica, di una riconsiderazione profonda della comprensione che l’umanità ha di sé stessa. Cosicché, tutte le culture – e le stesse forze politiche che vi si ispirano – debbano coraggiosamente affrontare un percorso di autentica “rifondazione antropologica”.

Domenico Galbiati

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