La Rivista online www.tuttieuropaventitrenta.eu ha pubblicato il seguente articolo a firma di Gaetano Fausto Esposito
“(Il Presidente americano) Wilson, essendosi persuaso che i sindacati signoreggiavano il mercato interno perché la tariffa doganale impediva la concorrenza estera, a sua volta convinse popolo e congresso che, a questo punto, i dazi protettivi non dovevano più, neppure agli occhi dei protezionisti, essere considerati giovevoli all’interesse generale e grandemente li ridusse. Già gli effetti di questa politica si cominciano a vedere”. Così scriveva nel 1914 Luigi Einaudi, all’alba della conclusione del primo ciclo di globalizzazione schierandosi a favore non di una liberalizzazione “selvaggia”, ma di un mercato che doveva essere messo al riparo dalle pretese degli oligopoli e dei trust per conseguire un complessivo migliore benessere.
Ma poi con la crisi del 1929 ci fu il varo dello Smoot-Hawley Tariff Act, una legge (si badi bene non un provvedimento presidenziale) che inaspriva i dazi sulle importazioni introducendo una tariffa generalizzata del 20% a protezione della produzione agricola e delle imprese americane colpite dalla Grande depressione. Tuttavia anche in questo caso la cosa non funzionò, anzi il provvedimento aggravò le conseguenze della crisi, causò una vasta risposta in termini di contro-dazi dei paesi colpiti e alla fine venne molto attenuato dal presidente Franklin Delano Roosevelt nell’ambito del suo New Deal.
La storia spesso si ripete anche se dovrebbe insegnare qualcosa. Certo qualora i policy maker si degnassero di studiarla un poco!
Certamente l’attuale contesto è molto diverso da quello del secolo scorso, non solo: anche guardando alle modalità utilizzate per introdurre le tariffe gli obiettivi sembrano in buona parte estranei a una logica puramente economica nel commercio internazionale di beni. Le aliquote da applicare per definire dazi reciproci non tengono conto del livello effettivo delle tariffe praticate dagli altri paesi ma del deficit statunitense verso i paesi di importazione rapportato al totale delle importazioni di quei paesi. Un po’ come dire che se agli americani piace acquistare prodotti di altri paesi (per motivazioni di costo, ma anche per i gusti, le preferenze, la funzionalità o la superiorità qualitativa di altre produzioni) questo genera un deficit commerciale perchè quegli stessi paesi applicano una concorrenza asimmetrica, praticando dazi sui prodotti americani. Questo spiegherebbe perché c’è l’applicazione di un dazio minimo del 10% verso praticamente tutti i paesi, come direbbe Totò: “a prescindere”, con percentuali più alte per quelli che Trump ha definito worst offenders.
Le motivazioni sono più squisitamente di ordine geo-politico, o anche più strettamente attinenti alla volontà di esercitare pressioni di fatto verso tutto (o quasi) il resto del mondo, per attivare singole trattative che, in parte più o meno consistente, poco hanno a che vedere con la situazione del commercio internazionale e molto invece con questioni di supremazia internazionale per estorcere caso per caso concessioni di vario tipo, cercando di far prevalere chi appare più forte.
La discussione sull’introduzione dei dazi si sta focalizzando sulle eventuali perdite che i paesi esportatori (o le aree di esportazione) potranno subire. Stima già di per sé molto complicata perché dipende da tanti fattori, tra i quali il cosiddetto pass-through ossia quanta parte del dazio si traduce in aumento di prezzo finale per il consumatore. Una osservazione a questo proposito è che le imprese esportatrici verso gli Stati Uniti potrebbero decidere di assorbire una quota più o meno rilevante del possibile aumento di prezzo finale comprimendo i profitti pur di mantenere il mercato, soprattutto tenuto conto che nei due anni della grande inflazione (2022 e 2023) si è registrata (ad esempio in Europa) una crescita dei margini di profitto.
In genere l’andamento del clima dei mercati è sintetizzato dalle borse. Un segnale assolutamente imperfetto ma che significa qualcosa e infatti nei tre giorni successivi all’annuncio del Presidente Trump del Liberation Day le sole borse europee hanno perso circa 2.000 miliardi di capitalizzazione e inizia a farsi strada l’ipotesi che, malgrado la sospensione per negoziato di queste misure per novanta giorni, ci possano essere effetti ancora più drammatici che non derivano dall’interscambio bilaterale, bensì dalla crescente incertezza in cui la politica dei continui annunci trumpiani sta mettendo il mondo intero.
La stessa sospensione dei dazi, pur positiva, finisce per alimentare estrema incertezza, perché sostiene la sensazione di essere preda dei “saliscendi umorali” del Presidente statunitense.
Nel frattempo sia l’incertezza sulle politiche economiche che quella sul commercio internazionale ha raggiunto picchi mai sperimentati recentemente.
Andamento dell’incertezza politica e crisi nazionale
Fonte: Ocse
Mentre il cosiddetto Indice VIX, che misura la volatilità attesa del mercato azionario statunitense, noto anche come indice della paura, tra inizio di marzo e inizio di aprile 2025 è cresciuto del 130%, con una volatilità quasi doppia rispetto a quella considerata critica, non toccando livelli così alti dall’aprile del 2020 (in pieno Covid-19).
In questa situazione i rischi di contraccolpi sulle catene globali di subfornitura sono particolarmente alti, in uno scenario mondiale in cui le interconnessioni produttive e commerciali rappresentano il tessuto nervoso dei sistemi produttivi.
E questo aspetto è forse quello più delicato. Nel passato il network di interdipendenze è stato considerato un fattore di stabilizzazione dell’economia mondiale, tanto che è stata coniata l’espressione di embedded liberalism, un approccio che avrebbe dovuto contemperare interventismo dei singoli stati con un regime multilaterale, il tutto assicurato dal buon funzionamento del mercato.
La politica di supremazia trumpiana sembra averci proiettato nella visione opposta: i dazi bilaterali, la stessa critica all’organizzazione del Patto della NATO, sono tutti aspetti che vanno nella direzione di scardinare ogni approccio multilaterale, che implica forme di parità con le altre nazioni, affermando invece la logica della cosiddetta “interdipendenza armata”, che modifica profondamente la fiducia nel mercato e nell’approccio multilaterale come fattore di stabilizzazione. Le connessioni globali divengono così un’arma di ricatto perché agire su di un anello della catena del valore comporta contraccolpi per tutta la filiera.
Ma intaccare la fiducia nelle catene del valore può produrre effetti a cascata difficilmente valutabili nelle conseguenze. E’ già accaduto con il Covid, quando il blocco della mobilità ha messo in crisi il sistema delle forniture. Oggi rispetto al 2020 le esigenze di ordine strategico si sono affermate anche nella scelta dei paesi subfornitori, al punto che il rischio variamente misurato è un aspetto che rientra tra i primi nella scelta dei fornitori, tuttavia una situazione di instabilità comporta di minare alle basi la logica delle global chain, ridimensionando il commercio dei beni e delle componenti.
Questo probabilmente è il pericolo maggiore, piuttosto che l’altro (tutto sommato gestibile almeno nel breve periodo) della contrazione dell’export verso gli Stati Uniti.
Se questa è la situazione per il commercio di manufatti ne potrebbe però uscire avvantaggiato il commercio internazionale dei servizi, che negli ultimi anni è cresciuto a un ritmo superiore a quello dei beni. E ricordiamo che in questo caso gli USA sono in forte surplus commerciale, con quasi 300 miliardi di dollari e una posizione di assoluta leadership nel campo digitale.
Si tratta di un mercato che, almeno per ora, sembrerebbe più al riparo dalle tematiche dei dazi manifatturieri, per quanto una crisi del commercio internazionale dei beni si rifletterebbe, considerata la crescente interdipendenza, anche su di una parte consistente del mercato dei servizi.
Tuttavia non si può escludere che tra le ragioni dell’”otto volante sui dazi” vi sia anche la volontà di favorire le grandi imprese statunitensi che si muovono nell’ambito dei servizi.
Da questo punto di vista il Governo americano potrebbe essere favorevole a una maggiore liberalizzazione dei mercati perché sarebbe una motivazione in più a supporto del Make America Great Again.