Forse perché c’è troppo caldo e umido; forse perché non ci si sente più tanto sicuri in montagna e al mare le onde sono alte e ci sono meduse anche a riva e comunque non si può nuotare; forse perché le elezioni sono vicine e lo spauracchio della Destra e della Sinistra italiane accorcia il sonno ed avvelena i sogni … forse ci sarà anche dell’altro ma insomma anche un profano come me ha il tempo di porsi qualche interrogativo. Forse incorrendo nella temerarietà  …

Cos’è il male? Il contrario del bene viene spontaneo rispondere. Per i credenti cattolici, il male è ciò che persegue e suggerisce il nemico di Dio, Satana. I due non sono equipollenti: il demonio non ha la stessa forza di Dio e – soprattutto dopo il trionfo della risurrezione di Cristo – gli è oltremodo sottomesso pur perseverando nella sua irriducibile ribellione.

Cos’è il bene? La risposta è ovvia per i cristiani: il bene per antonomasia è Dio! E tutto ciò che a lui fa riferimento e da lui discende. In una parola, l’Amore trinitario e quello senza misura verso tutte le persone chiamate all’esistenza, anche se a lui divenute nemiche e umanamente inamabili. L’amore – nell’accezione greca di ἀγάπη, diversa dall’amicizia (ϕιλία) e dall’eros (ἔρως) – è stato rappresentato e vissuto dal figlio di Dio Gesù, vero Dio e vero uomo – durante tutta la sua vita e soprattutto in occasione nella sua morte tragica e dolorosa.

Da un punto di vista laico, invece, rispondere alla domanda sul bene potrebbe essere più difficile perché – tolta la categoria “Dio” così come le Scritture, la Tradizione e il Magistero cattolici la presentano – facilmente i pareri potrebbero essere così molteplici e diversificati da condurre ad un franco relativismo. Più facilmente ci si trova davanti a deliziose definizioni (penso a quelle orientali, tornate un po’ di moda grazie ai correttivi occidentali applicati da astuti influencer) tanto accattivanti quanto insipide e prive senso profondo.

Nei casi migliori, sono frequenti gli orientamenti che San Giovanni Paolo II nella sua enciclica Veritatis splendor (VS) definiva “consequenzialismo” (che pretende di ricavare i criteri della giustezza di un comportamento dalle conseguenze che ne derivano) o “proporzionalismo” (che prende in esame la proporzione tra gli effetti buoni e cattivi). A suo dire, “false soluzioni”: «Sono certamente da prendere in grande considerazione sia l’intenzione – come insiste con una forza particolare Gesù in aperta contrapposizione agli scribi e farisei, che minuziosamente prescrivevano certe opere esteriori senza badare al cuore – sia i beni ottenuti e i mali evitati a seguito di un atto particolare. Si tratta di un’esperienza di responsabilità. Ma la considerazione di queste conseguenze – nonché delle intenzioni – non è sufficiente a valutare la qualità morale di una scelta concreta. […]. Le conseguenze prevedibili appartengono a quelle circostanze che, se possono modificare la gravità di un atto cattivo, non possono però cambiarne la specie morale. La moralità dell’atto umano dipende anzitutto e fondamentalmente dall’oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata» (VS nn. 77, 78).

La conseguenza lapidaria per il Santo Pontefice fu che “Le circostanze e le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto “soggettivamente” onesto o difendibile come scelta» (VS n. 81).

Tuttavia, Papa Francesco nel capitolo 7 (cfr. nn. 237-262) della sua Enciclica Fratelli tutti (FO) così si esprime al n. 241: “Non si tratta di proporre un perdono rinunciando ai propri diritti davanti a un potente corrotto, a un criminale o a qualcuno che degrada la nostra dignità. Siamo chiamati ad amare tutti, senza eccezioni, però amare un oppressore non significa consentire che continui ad essere tale; e neppure fargli pensare che ciò che fa è accettabile. Al contrario, il modo buono di amarlo è cercare in vari modi di farlo smettere di opprimere, è togliergli quel potere che non sa usare e che lo deforma come essere umano. Perdonare non vuol dire permettere che continuino a calpestare la dignità propria e altrui, o lasciare che un criminale continui a delinquere. Chi patisce ingiustizia deve difendere con forza i diritti suoi e della sua famiglia, proprio perché deve custodire la dignità che gli è stata data, una dignità che Dio ama. Se un delinquente ha fatto del male a me o a uno dei miei cari, nulla mi vieta di esigere giustizia e di adoperarmi affinché quella persona – o qualunque altra – non mi danneggi di nuovo né faccia lo stesso contro altri. Mi spetta farlo, e il perdono non solo non annulla questa necessità bensì la richiede”. Il Pontefice si discosta – a mio avviso – dalla interpretazione letterale classica del famoso passo delle Beatitudini di Mt 6, 38-41 [“Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due”] e afferma piuttosto che “il modo buono di amarlo (ad es. un tiranno oppressore e sanguinario, ndr) è cercare in vari modi di farlo smettere di opprimere, è togliergli quel potere che non sa usare e che lo deforma come essere umano”.

Nei paragrafi successivi della FO il Pontefice argentino – che ha vissuto in prima persona il terrore e l’orrore della dittatura dei militari nel suo Paese – ripudia decisamente la guerra: il suo insegnamento è rimasto identico anche in occasione dell’invasione russa dell’Ucraina. Il “modo buono di amare” gli invasori è quello di adoperarsi a fermarli ma senza armi e senza entrare in guerra, ricorrendo solo al dialogo e alla diplomazia.

Resto sinceramente perplesso, adesso come quando – in nome del “bene possibile” – egli nel capitolo 8 della sua Amoris lætitia (AL) ha sancito la possibilità che il Vescovo territorialmente competente possa dichiarare nullo, in certe circostanze, un matrimonio canonicamente valido, rato e consumato.

Se sono leciti solo il dialogo paziente e costante attraverso la diplomazia mi chiedo, ad esempio: ci sono realistiche speranze di sincero ed onesto dialogo con Putin invasore dell’Ucraina? Ce ne erano con Hitler e fu a suo tempo sbagliato combattere militarmente il Fuhrer? Se la risposta è SI allora bisogna prendersi la responsabilità di accollarsi gli omicidi, le torture, gli stupri, le deportazioni, i furti, la privazione della libertà che le truppe del primo hanno ed avrebbero ancor più commesso se lasciate libere di agire indisturbate; e – almeno – l’Olocausto che il secondo avrebbe portato a definitivo compimento nelle more di un difficilissimo e lentissimo accordo diplomatico, semmai si fosse raggiunto.

Mi chiedo: il recente barlume di possibile soluzione diplomatica del conflitto russo-ucraino è attribuibile solo e soltanto alla forza delle sanzioni (le stesse per cui i partiti della Destra italiana forse otterranno la vittoria alle elezioni dopo aver affossato Draghi) o anche alla disperata difesa armata degli ucraini con le armi che USA ed Europa hanno loro fornito?

In buona sostanza, mi interrogo: è bene tollerare il male altrui pur di non commettere il proprio? O più provocatoriamente: ci si possono tappare gli occhi e il naso sulle conseguenze del proprio agire una volta che si abbia la pregiudiziale garanzia che esso è moralmente lecito? Evenienza che è tutt’altro che un ossimoro. Si immagini, ad esempio, un partigiano cattolico in mano ai repubblichini di Salò i quali in buone maniere – prima di altre tristemente note – gli richiedessero di dire la verità circa l’identità dei suoi compagni d’armi e le loro prossime azioni di guerriglia: rivelare tutto in ossequio al rispetto del principio di dire sempre la verità condannando così molte persone alla fucilazione (spesso preceduta da supplizi disumani) confligge o no col perseguimento del bene? Suggerire che tacere pur di non tradire sia l’opzione moralmente corretta nella fattispecie non è una risposta utile perché serve solo ad eludere la domanda.

Un’ulteriore conseguente provocazione: va condannata come moralmente illecita la resistenza armata dei partigiani italiani, fra cui non pochi erano cattolici?

A me sembra che il criterio fornito da San Giovanni Paolo II e ripreso da Papa Francesco pur restando prioritario, non possa restare l’unico determinante: la valutazione dell’oggetto di un atto deve – a mio avviso – accompagnarsi alla valutazione delle sue conseguenze (per come umanamente, ragionevolmente e onestamente prevedibili) nonché della proporzione fra effetti buoni e cattivi. Queste due ultime condizioni – sempre secondo il mio sentire – dovrebbero avere un’importanza paritaria con la prima (che comunque per prima deve essere considerata): solo se rispettate tutte le tre condizioni un atto potrebbe definirsi realmente buono e moralmente lecito.

Ricordo a me stesso che non devo confondere il male con la sofferenza, il nuovo dragone che – dopo lo sdoganamento della morte per suicidio che sta progressivamente conquistando il mondo occidentale – continua ad incutere un’enorme crescente paura. Spesso la sofferenza è strada obbligata per il conseguimento del bene: è il mistero della Croce che Gesù ha vissuto sulla sua pelle, divina e perciò estremamente sensibile …

Con una metafora: le conseguenze di un’azione debbono coincidere con la meta di un viaggio, non con la strada che si percorre per raggiungerla anche se quest’ultimo aspetto non deve essere trascurato come fosse del tutto ininfluente.

Come già per AL, io chino il capo ed obbedisco: mi fido della intelligenza di San Giovanni Paolo II, del Papa regnante, di Sant’Agostino e di San Tommaso; mi fido della loro competenza, del loro discernimento, dello Spirito Santo che prioritariamente ha assistito loro prima e molto più di me. Rinuncio al mio parere e abbraccio quello del Magistero della Chiesa perinde ac cadaver. Da esso imparo che nelle Scritture il “Dio degli eserciti” (suona un po’ problematico chiamarlo così ma è ancora così, soprattutto per i nostri “fratelli maggiori nella Fede”) ha provveduto assistenza e vittorie senza battaglie, ogni volta saggiando ed irrobustendo la fede dei suoi eletti. Fra le tante occasioni, ce lo insegna la vicenda della conquista di Gerico (volendo trascurare la strage che ne conseguì).

Sempre a capo chino, non posso non avvertire che, se un’azione deve rispettare le tre condizioni che ho sopra menzionato, difficilmente se ne troveranno molte di ASSOLUTAMENTE giuste. Sarei tentato di pensare che l’uomo, decaduto a causa del peccato originale, raramente arriva ad un comportamento pratico assimilabile alla santità di Dio.

Molti dei suoi atti non avranno il colore del bianco (cioè del bene assoluto) bensì del grigio più o meno chiaro: non solo per la difficoltà di individuare il bene da compiere ma per la infinita complessità delle conseguenze dei propri atti. È questione dell’ampiezza del campo di valutazione: si può – consolatoriamente – stringere lo zoom a pochi effetti ma quando lo si allarga (e più lo si allarga) ciò che a prima vista appariva un bene pressoché assoluto spesso cessa ben presto di apparire tale.

I dilemmi che si pongono alla coscienza necessitano dell’assistenza dello Spirito Santo che assicuri il dono del discernimento, una proprietà del cristiano adulto e realmente convertito (trasformato). Purtroppo, il più delle volte un simile dono non viene concesso immediatamente (come si ottiene risposta con un click su Google) ma grazie a una preparazione antecedente (attraverso la preghiera e lo studio) che lentamente decanta – se/quanto/come Dio stabilisce – indicando infine una scelta che prima sembrava avere la stessa caratura morale del suo opposto.

Nelle more si procede “per tentativi” (o, come suol dirsi, “nella storia” intendendo che Dio parla coi fatti della storia concreta) cercando di comprendere dai frutti la bontà dell’approccio intrapreso. In questo tempo sospeso in cui non si ha ancora la certezza interiore che Dio abbia risposto ed indicato la sua volontà, cercare il bene maggiore possibile al costo del male minore possibile potrebbe essere un atteggiamento umano tollerabile ed accettabile.

Roberto Leonardi

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