Un primo nodo è la ricerca del lavoro. I nostri giovani cercano lavori che non esistono più (il posto fisso, o il lavoro di funzionario in banca, ad es.) e non conoscono i lavori che sono disponibili. Esistono lavori che non trovano candidature adatte. In questo senso, occorre:

  1. fare una ricognizione delle professionalità e delle competenze necessarie dal mercato del lavoro;
  2. fare formazione a chi non le possiede in parte;
  3. informare chi cerca lavoro delle opportunità esistenti (e su quelle inesistenti).

A questo proposito, vale la pensa di sottolineare un dato: il dispositivo sul reddito di cittadinanza prevedeva l’intervento dei cosiddetti “navigator” affinché i disoccupati o gli inoccupati potessero trovare un lavoro. Si tratta di un esperimento fallito, perché sono errati i presupposti di base: non si trova lavoro a partire dalle competenze possedute, ma piuttosto in base alla corrispondenza tra le competenze richieste dal mercato del lavoro e quelle possedute da quanti cercano lavoro. Occorre quindi dare formazione a chi non possiede le competenze richieste per lavorare, ma bisogna capire di quali competenze c’è bisogno e quali sono le competenze possedute da chi cerca lavoro.

Tra l’altro, la riforma del lavoro prevedeva la possibilità di certificare le competenze professionali pregresse, sviluppate in modo non formale (ad esempio, a seguito di esperienze lavorative ma non di corsi di formazione strutturati) e che consentissero al lavoratore che ne avesse fatto richiesta di ottenere un riconoscimento formale di quanto effettivamente posseduto in termini di competenze, conoscenze e abilità. Queste attività avrebbero potuto essere svolte anche (e soprattutto) dalle Università, ma a questo dispositivo non è stato mai dato seguito. Varrebbe davvero la pena di tornare su questo tema.

Una ulteriore questione riguarda la formazione al lavoro. Qui occorre fare una premessa importante: saper lavorare bene implica al 50% possedere le capacità, conoscenze e abilità necessarie per svolgere il ruolo e mansioni assegnati, ma per il restante 50% richiede competenze trasversali, quali: saper collaborare con gli altri colleghi, saper gestire il proprio rapporto con i superiori, saper usare il registro comunicativo adeguato alla situazione e alle persone con cui si interagisce. Queste ultime si sviluppano quando si entra a contatto con il mondo del lavoro, non importa se come tirocinante, stagista o lavoratore dipendente. Tanto prima avviene la prima esperienza /contatto con il mondo del lavoro, tanto meglio. Molti nostri studenti universitari, ad esempio, arrivano alla conclusione della laurea magistrale senza essere mai entrarti in contatto con la realtà del lavoro. E’ importante invece iniziare a conoscere il mondo del lavoro già nell’adolescenza (15-17 anni). Ovviamente le mansioni che un adolescente può svolgere non potranno mai essere quelle più complesse di un adulto, ma sicuramente può apprendere l’importanza di essere puntuale sul lavoro, saper trattare con colleghi e utenti con il registro adeguato, saper scrivere una email, saper obbedire a ordini che non si comprendono o che non si condividono fino in fondo. Questo è appunto l’altro 50% della formazione necessaria per lavorare.

In Italia sono stati varati i PCTO (percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento) a questo proposito: sono progetti che le scuole superiori scelgono sulla base dei percorsi offerti non solo dalle Università ma anche da altre organizzazioni, ma non esiste una valutazione nazionale della reale efficacia di tali interventi. Si tratta di interventi che dipendono molto dall’offerta delle singole organizzazioni, non esiste una struttura che orienti e dia un indirizzo alle attività offerte, né si riesce a fare una valutazione oggettiva dei risultati raggiunti.

I PCTO sono percorsi obbligatori, per gli studenti, ma le modalità e i criteri delle valutazioni dei risultati raggiunti è molto poco strutturato e affidabile. Personalmente ne ho seguiti un paio e le valutazioni finali degli studenti erano semplicemente giudizi affidati al buon senso, senza la possibilità di una reale valutazione.

Un aspetto che meriterebbe di essere affrontato è la possibilità di introdurre forme di volontariato (servizio alla comunità) nel percorso scolastico, in aggiunta o in alternativa al PCTO. E’ una modalità formativa già in atto nei paesi anglosassoni: gli studenti sono tenuti a svolgere un monte ore destinate al volontariato presso una organizzazione di terzo settore. Queste esperienze sono del tutto assimilabili a quelle del contatto con il mondo del lavoro: le ”soft skills” che si sviluppano attraverso esperienze di lavoro tutelato sono esattamente le stesse, con l’aggiunta che il volontariato sviluppa anche il senso di solidarietà e di appartenenza alla stessa comunità.

Un’ultima riflessione: si discute in forma molto negativa della possibilità di far lavorare gli adolescenti. In realtà, laddove questi svolgano lavori leggeri, in condizioni adeguate alla loro età (no all’orario notturno o a carichi e responsabilità non adeguate alla loro età, no a compiti troppo gravosi sotto il profilo fisico), il cui orario è compatibile con la frequenza scolastica e la possibilità di svolgere lo studio individuale, queste occasioni di  socializzazione al lavoro costituiscono delle esperienze importanti.

In altre parole, la scuola può e deve formare alla conoscenza del mondo del lavoro, ma questo dovrebbe significare anche insegnare a come si scrive un CV; come ci si prepara e come si svolge un colloquio di selezione; come si cerca lavoro. Occorre spiegare come ci si deve vestire per andare a lavorare, come ci si risvolge a un superiore, come si scrive una email, seguendo un registro formale e un registro informale.

Le agenzie del lavoro da questo punto di vista sono un disastro.

L’orientamento al lavoro spesso viene frainteso con la divulgazione di informazioni relative all’offerta formativa di un istituto di scuola superiore o di un Ateneo. In realtà, l’orientamento al lavoro dovrebbe far conoscere la reale situazione delle esigenze del mercato del lavoro, in Italia e all’estero.

Per trovare lavoro oggi più che mai occorre conoscere l’inglese. Non si può semplicemente aumentare gli insegnanti di lingua senza verificarne le capacità didattiche e – ancora di più! – le competenze linguistiche.

(senza la pretesa di essere esaustiva)

Paula Benevene

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