La lieve decrescita del numero degli occupati (-16 mila) segnalata nella recente indagine Istat relativa allo scorso mese di marzo trova una spiegazione nella riduzione della quota dei lavoratori stagionali a cavallo delle due principali stagioni turistiche, ma offre anche la conferma della crescita tendenziale dei posti di lavoro (+450 mila) e di quella di circa un milione rispetto al dicembre 2019, l’anno che precede la pandemia Covid.

La ripresa economica negli anni recenti ha consentito anche un miglioramento della qualità dei rapporti di lavoro (+1,39 milioni a tempo indeterminato) e una contemporanea riduzione di quelli a termine (-234 mila) e dei part time di tipo involontario (-368 mila). La crescita dei nuovi posti di lavoro risulta equamente distribuita tra maschi e femmine e nelle macro-aree territoriali. La distanza del tasso di occupazione rispetto agli altri Paesi dell’Ue rimane rilevante (-9%) e riflette soprattutto i ritardi della componente femminile e dei giovani con meno di 30 anni, rispettivamente di 13 punti e di 15 punti. Ma l’inversione di tendenza rispetto all’andamento dell’occupazione nella seconda decade degli anni 2000 è decisamente positiva.

Nelle Regioni del Centro-nord gli occupati hanno superato la cifra del 2008 (+376 mila). Il recupero delle perdite nel Mezzogiorno (-262 mila) è avvenuto nel 2024. L’aumento degli occupati negli anni recenti ha consentito di ridurre un analogo numero di persone in cerca di lavoro e, in misura ridotta, anche inattive (-602 mila), che rappresentano tuttora circa un terzo della popolazione tra i 15 e i 64 anni.

Il tratto comune dei due cicli descritti rimane il costante invecchiamento della popolazione in età di lavoro e in particolare della componete effettivamente occupata. Il saldo positivo degli occupato è dovuto integralmente alla componente dei lavoratori di età superiore ai 55 anni. Nel frattempo, la coorte degli over 50 anni ha superato di gran lunga quella 35-49 anni.

La valutazione positiva dei dati dell’Istat viene abitualmente contestata dalle forze politiche dell’opposizione parlamentare e dalla parte maggioritaria di quelle sindacali. La polemica fa leva sulla scarsa qualità dei nuovi posti di lavoro e delle retribuzioni. Quest’ultima, confortata dall’Istat e da alcune indagini operate da Istituti di ricerca internazionali.

L’andamento negativo dei salari reali è un fatto accertato. È un fenomeno che si protrae da oltre 30 anni, frutto del concorso di più fattori: la bassa crescita della produttività, in particolare nei settori del terziario ad alta intensità di occupazione; dalla scarsa efficacia della contrattazione collettiva centralizzata, nonostante la rilevanza della copertura dei contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali e dei datori di lavoro maggiormente rappresentative; dalla diffusione del lavoro sommerso che influisce negativamente sull’andamento dei salari regolari; dall’elevata concentrazione degli occupati nelle basse qualifiche e nei settori con elevata mobilità lavorativa.

L’incidenza dei rapporti di lavoro atipici rimane sostanzialmente in linea con le medie europee ed è motivata da fattori strutturali. In particolare dalla rilevanza delle piccole e micro imprese in molti comparti dei servizi. Con tutti i limiti del caso, la crescita del numero degli occupati, e del lavoro stabile, ha contribuito ad aumentare anche i redditi disponibili per le famiglie.

Si può fare di più e di meglio, dato che una parte rilevante delle attività economiche sottoutilizza le tecnologie e le risorse umane disponibili, ma per ottenere questi risultati l’obiettivo primario deve essere quello di mobilitare le risorse per far crescere la produttività.

Il dibattito politico e sindacale prevalente rimane ancorato alle letture, agli schemi interpretativi e alle rivendicazioni che hanno impedito le riforme che in molti altri Paesi europei hanno consentito di ottenere risultati in termini di tasso di occupazione e di crescita dei salari.

Gli anni oggetto dell’analisi precedente sono stati caratterizzati da un’abnorme aumento della spesa pubblica per sostenere i redditi per la carenza di lavoro, per ridurre i rischi di impoverimento della popolazione, per contribuire alla crescita dei salari netti compensando le carenze della contrattazione collettiva. A quanto pare, visti i risultati, senza ottenere risultati apprezzabili.

Le risorse utilizzate per tale scopo sono state sottratte all’incremento degli investimenti pubblici e alla spesa sociale, in particolare per quella sanitaria, per il lavoro di cura dei minori e delle persone non autosufficienti, per l’istruzione e per garantire un ragionevole ricambio generazionale dei dipendenti della Pubblica amministrazione. Settori che, nei principali Paesi europei hanno svolto un ruolo importante per la crescita dell’occupazione e per la qualità dei rapporti di lavoro.

La crescita dell’occupazione, e dei rapporti a tempo indeterminato, non è il frutto di particolari interventi normativi, ma e stimolata principalmente della difficoltà delle imprese di reperire la manodopera in grado di sostituire l’esodo, e le competenze, dei lavoratori anziani. È un fenomeno destinato a durare nel tempo per effetto della riduzione demografica della popolazione in età di lavoro.

Le letture distorte del mercato del lavoro portano a sottovalutare alcuni nodi reali che possono impedire l’ulteriore crescita degli occupati. La generazione dei nuovi posti di lavoro ha ridotto il numero delle persone in cerca di lavoro, ma fatica a ridurre quelle inattive, in particolare la quota dei giovani e delle donne, per i due terzi concentrati nelle regioni del Mezzogiorno, che rappresentano il bacino di riserva per rigenerare la popolazione attiva.

La stessa riduzione del numero dei contratti a termine può rappresentare un segnale delle difficoltà delle imprese di reperire la manodopera necessaria per espandere le proprie attività. Poco meno della metà delle persone che cambiano ogni anno il posto di lavoro (circa 6 milioni) è ultracinquantenne. Gran parte chiamata ad adeguare anche le proprie competenze. Queste criticità sono destinate inevitabilmente ad aumentare con l’invecchiamento della popolazione e per l’impatto pervasivo delle nuove tecnologie.

Investire sulle competenze delle risorse umane, comprese quelle imprenditoriali e manageriali, diventa la condizione essenziale per rigenerare la popolazione attiva e per remunerare meglio i lavoratori.

Sono novità che hanno sollecitato alcune innovazioni importanti nelle politiche pubbliche per il lavoro, ma il complesso degli orientamenti di una parte rilevante degli attori che possono contribuire a migliorare la quantità e la qualità degli interventi, a partire dalle istituzioni scolastiche e dalle rappresentanze del mondo del lavoro, è ancora inadeguata. Per una parte della nostra classe dirigente i fallimenti delle nostre politiche del lavoro sono motivati dalla carenza di norme legislative per vincolare la flessibilità del lavoro e dalla scarsità risorse delle risorse pubbliche destinate a sostenere i redditi.

Natale Forlani

Pubblicato su www.ilsussidiario.net

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