Nel dibattito politico sussistono alcuni temi (o forse meglio alcuni termini) non ben definiti concettualmente e a volte inafferrabili praticamente. Questa circostanza condiziona, non di rado, il successo dei confronti che si svolgono, sviati dalle omonimie. Mi propongo di fare, di farmi, qualche domanda, non di più, sul centro, il sistema elettorale, la “forma partito” o più semplicemente l’organizzazione della attività politica.
Leggo o sento parlare di centro quando ci si riferisce a un centro elettorale, cioè a un bacino di elettori non stabilmente orientati, e “fidelizzati”, a sinistra o a destra o riconducibili a partiti così identificabili (è già significativo che si parli molto di centro-sinistra e di centro-destra). Al centro dunque vi sarebbe l’elettorato contendibile e dalla cui conquista dipende la vittoria.
C’è un centro politico, cioè il posizionamento di soggetti politici che coltivano attenzioni di equilibrio, e integrano esigenze legittime ma solitamente perseguite le une escludendo (o posponendo o relegando nell’ombra) le altre. (Non penso al barcamenarsi opportunistico, al tenersi le mani libere per il mestiere di ago della bilancio o di scegliere in tutto una via di mezzo).
Quando penso a un soggetto politico di centro mi viene in mente che nell’acqua non c’è uno spazio vuoto, che attende chi lo occupi. Solo la consistenza di una presenza organizza lo spazio in un contesto fluido. Uno studio dell’Istituto Cattaneo, datato a novembre 2020, quindi recente ma con le interviste sulle aspettative di voto precedenti al Governo Draghi, nel leggere i flussi di lungo periodo (dal 2013) conclude per la progressiva configurazione di un nuovo bipolarismo. Tratta così come “bolle”, difficilmente ripetibili, gli exploit di Renzi e poi del M5S. Da non specialista mi sembra piuttosto che siano le due bolle ciò che contraddistingue il periodo e che segnala la instabilità dell’assetto e la sua predisposizione a esiti imprevedibili. Che di bolle si tratti invece mi sembra confermato dalla velocità con cui si gonfiano e poi si dimezzano.
La rappresentazione che ci si forma del sistema politico si lega al sistema elettorale. Noi siamo abituati a vedere (come i più, vedo da resoconti giornalistici): situazioni come quella in USA, dove l’alternanza funziona (non senza fatica e con qualche rischio come constatato di recente) e dove l’attrito del sistema è nel rapporto con un parlamento a maggioranza diversa e in una poliarchia dove molte istanze giudiziarie possono bloccare o sbloccare quello e quell’altro.
Abbiamo poi l’immagine del bipolarismo tedesco, dove l’alternanza spesso non matura e lo sbocco è quello della grande coalizione, perché (a mio avviso correttamente) se l’elettorato non da una maggioranza autosufficiente a una parte, intende chiedere che più parti collaborino. Non è un fallimento delle elezioni, ma uno dei suoi esiti legittimi.
Abbiamo poi la geometria variabile degli schieramenti francesi, che ruota intorno alla competizione per l’Eliseo, con il connesso rischio della coabitazione. Apparentemente più definita è la situazione inglese. Va però ricordare che nei sistemi bipolari non sempre c’è un bipartitismo e normalmente operano un terzo o un quarto giocatore, a volte ininfluenti, a volte decisivi. Abbiamo poi situazioni che ci fanno venire in mente la Spagna degli ultimi anni o Israele, dove si continua a interrogare gli elettori affinché diano una risposta più gestibile, perché il sistema dei partiti non riesce a interpretare quella che ha già avuto.
Questi accenni così parziali e sommari bastano forse per constatare che un bipolarismo idealtipico esiste più nei libri che nella realtà, e che laddove esiste non è una pianta che si possa ambientare e spontaneizzare in climi e terreni diversi. Comunque, laddove sussistono due schieramenti stabilmente strutturati, e che si alternano nella lunga durata suscitando l’attesa che questo continuerà ad avvenire, è accettabile un sistema elettorale, che accompagni e assecondi il funzionamento, la vita, di questo sistema politico.
Laddove invece il sistema dei partiti è più largamente articolato (come da sempre in Italia) ed ha una spiccata fluidità come avviene attualmente (raddoppiare, dimezzare, scindere, accorpare, mutare partner, mutare casacca, cosa ben più rara un tempo) è un sistema proporzionale, puro o con limitatissime correzioni, quello che può accompagnare meglio l’evoluzione del sistema, rispettare gli elettori, non degenerare nella democrazia di Procuste.
Aggiungo che un sistema proporzionale è più aperto all’emergere di novità (anche in politica è necessaria l’innovazione). È anche indispensabile per consentire nuove iniziative che non debbano sacrificare la loro distintività in raggruppamenti compositi.
Qui una digressione: il diverso (così tanto diverso) regime delle firme da raccogliere per la presentazione, ritenuto legittimo anche dalla Corte costituzionale, mutuando un altro linguaggio comporta una barriera all’entrata fortemente protezionistica verso chi è già dentro e duramente anticoncorrenziale, cioè, tornando al linguaggio politico, antidemocratica.
Alla fine della Prima Repubblica una campagna contro la partitocrazia ebbe successo e portò paradossalmente a una più effettiva e impudica partitocrazia. L’abolizione delle preferenze, con ragioni e con pretesti, buttando via il bambino invece di sostituire l’acqua come si doveva fare, fu una concausa della disaffezione dalla politica (l’astensionismo) e della antipolitica. Abbiamo privato la politica di alcune centinaia di eletti, un migliaio finora, e prima di un maggior numero di candidati, che investivano energia, tempo, competenze, esperienza, passione nel rapporto con i cittadini, nella partecipazione ad occasioni di confronto, nell’assumere, e poter trasferire nelle aule parlamentari, conoscenza diretta di territori e società locali.
Anche il tema di restituire all’elettore la scelta degli eletti, non entro qui nelle modalità, va dunque riaperto. Ma chi sono questi partiti così tanto richiamati finora? Siamo d’accordo che i partiti attuali dovrebbero essere riavvicinati al modello costituzionale, perché altrimenti talora usurpano le funzioni, che dovrebbero essere dei partiti a modello costituzionale? È arduo, ma non per questo diventa meno necessario. Intanto i partiti dovrebbero spontaneamente tendere verso quel modello. Farlo nella Prima Repubblica forse sarebbe stato più agevole, ma se ne avvertiva meno la necessità, perché quei partiti rispecchiavano già maggiormente i valori costituzionali.
Quasi non ci sorprende più la straordinaria volatilità del voto, che sarebbe stata inimmaginabile nella duratura stabilità della Prima Repubblica. La società è diventata liquida? Si. E dunque i partiti solidamente strutturati di una volta si sono pure liquefatti, o addirittura gassificati.
Che tipo di partito (grande o piccolo, antico o nuovo, o anche in fieri), con quale organizzazione, può instaurare e intrattenere con gli elettori un rapporto stabile che valorizzi le loro convinzioni, i loro interessi, e che lasci spazio alle emozioni fugaci, anzi le sappia interpretare, ma senza ridursi ad esse? Che tipo di partito può realizzare la stabilità possibile oggi? I partiti solidi disponevano di condizioni ora irripetibili.
Per fare una rete capillare di sezioni territoriali ci vorrebbero risorse finanziarie che oggi la politica non ha, e se poi queste sezioni ci fossero rimarrebbero per gran parte del tempo deserte, perché le dinamiche della nostra vita si sono modificate. Non risultano esperimenti di successo che abbiano risolto definitivamente il problema della presenza territoriale e ambientale dei partiti. Tutti i siti e portali dei partiti brillano per riservatezza su questo tema. Ma si può dire che né i circoli (territoriali, tematici, ambientali) del PD, che forse sono il tentativo più evoluto, né i “meetup” e gli “spazio5S”, né il meno che si sa degli altri, sono un sostituto delle sezioni.
Una risorsa ancora più importante erano gli iscritti, che sono anche una via di autofinanziamento. Gli iscritti sono una porzione stabile di elettorato, che della scelta fa identità e appartenenza, e che struttura il rapporto con il resto della società. È impressionante quanto poco dichiarino nei loro siti i partiti sugli iscritti. Ma una indagine di Adnkronos (5 aprile, PD “campione di tessere”, boom Fratelli d’Italia) mette in luce che gli iscritti complessivi ai partiti sembrano rimanere sotto un milione: più di 400000 il PD, meno di 200000 il M5S, intorno ai 100000 la Lega e forse Forza Italia, 130000 Fratelli d’Italia). Uno solo dei grandi partiti di un tempo superava di molto il totale dei partiti attuali (da un milione e mezzo in su per la DC e talora oltre i due milioni per il PCI).
Dunque avere maggiore dimestichezza con i social non risolve questo problema, che è un problema diverso.
Una volta poi c’erano i quotidiani come Unità, Popolo, Avanti. La loro funzione non era nelle grandi tirature, ma nell’assicurare un’informazione ai quadri territoriali (e nel tenerli in-formazione), affinché arrivassero messaggi non filtrati o distorti (o non arrivassero affatto). Come mezzo per orientare politicamente gli elettori la stampa quotidiana è scesa notevolmente. Le tirature del resto regrediscono. Andare sulle testate quotidiane serve soprattutto ad entrare nelle rassegne stampa, una volta circolanti tra le classi dirigenti e gli addetti ai lavori, ora progressivamente più diffuse. Sono più efficaci le reti televisive generaliste, la radio e Internet e i social.
Blog tematici e blog territoriali possono essere il successore delle sezioni? Si intende con una regolazione che impedisca a pochi di pervertirlo, come avviene in qualche caso noto. È giusto, ed è coerente, confidare nel rapporto con la società civile organizzata, ma la società civile si organizza per le proprie finalità e secondo le proprie logiche di autonomia. Un dialogo costante ed anche vissuto con procedure relativamente strutturate non risolve tuttavia il problema organizzativo di un soggetto politico. Un soggetto politico, tanto più se autonomo, di organizzazione deve avere la propria.
Resta il fatto che il cuore della politica è nelle scelte delle persone (nei valori, nelle passioni, nelle opinioni, negli interessi, nelle paure, nelle sofferenze, nei guai…). Il cuore della politica è ciò che sta a cuore alle persone, e organizzare la politica è sempre una questione di relazioni tra persone, cioè di reti di relazioni personali.
Attraverso quali canali, in quali occasioni queste relazioni si instaurano, e con quali mezzi e in quali circostanze vengono coltivate e nutrite di contenuti, di allenamento a tradurre il personale in bene comune, l’individuale in interesse generale, la paura in ciò che solidalmente si combatte, la speranza in ciò che si partecipa a costruire? Questo il criterio. I mezzi possibili sono tanti: altri hanno già scoperto che è possibile avere legami veri wi-fi (senza cavi, cioè senza luoghi fisici, strumenti di comunicazione materiali, riunioni in presenza se non eccezionalmente).
Il partito digitale, il partito Wi fi è la frontiera. Non un selvaggio West, ma un territorio nel quale si entra per viverci, per organizzarlo, per farvi regole, comunità e civiltà. Quindi non il cedimento al dinamismo dei social come sono, senza sceriffi o con sceriffi non legittimi, ma la capacità di volgere nuovi strumenti a finalità che li trascendono.
Vincenzo Mannino