I referendum vengono generalmente – e genericamente – ritenuti uno strumento privilegiato di partecipazione democratica . Siamo sicuri che sia sempre ed effettivamente così?

Non è fuori luogo chiedercelo nel momento in cui anche le democrazie storicamente più consolidate, sono esposte a pericolose tentazioni di tutt’altro segno. Derive scivolose che le sospingono verso una possibile involuzione “autocratica”. Cioè – per uscire dall’ eufemismo – verso veri e propri “regimi” che corrodono gli ordinamenti democratici, ricorrendo alle loro stesse risorse, così da svuotarli dal di dentro, quasi senza colpo ferire. Dando, cioè, infine, per fatto ed assodato, ciò che il Paese rifiuterebbe drasticamente se – anziché esservene un po’ per volta condotto, perfino a suo dispetto – fosse posto espressamente a fronte di una tale eventualità.

Va fatta, in primo luogo, una premessa circa il dibattito in corso in ordine alla legittimità o meno dell’astenersi, il prossimo 8 e 9 giugno.

Nessun dubbio che sia possibile dare alla propria astensione il significato di una presa di posizione e non il valore negativo di una pura e semplice ignavia nei confronti di tematiche, in ogni caso rilevanti: il lavoro e la cittadinanza.
Eppure, quando l’ astensione è intenzionalmente ed espressamente orientata al non raggiungimento del “quorum” del 50%, implica, comunque, un dato di criticità. Nella misura in cui vuol concorrere a depotenziare, anzi annullare il significato politico contemplato dal voto di chi, a sostegno di una tesi o dell’altra, intende recarsi alle urne.

Forse è esagerato parlare di “furto di democrazia”, eppure, ad ogni modo, non e’ elegante – e, forse di più, improprio e riprovevole – che, a fronte di un quesito posto collettivamente al Paese, si assuma un atteggiamento orientato ad impedire, qualunque esso sia, un pronunciamento dell’ elettorato, nel pieno rispetto della sua collegialità. In democrazia non può e non deve funzionare così, quasi si volesse non, legittimamente, sottrarsi ad un proprio, personale pronunciamento, bensì inficiare quello altrui.

La nostra prima indicazione è che, comunque, si partecipi al voto. Almeno per due motivi. Anzitutto, per limitare quanto più possibile l’astensione, evitando di dare un ulteriore segnale di quel sostanziale distacco dei cittadini dalle istituzioni che sta raggiungendo soglie pericolose, al di sotto delle quali la “rappresentanza” rischia di essere depotenziata e, per quanto pur sempre formalmente legittima, di fatto, politicamente, compromessa.

In secondo luogo, perché chi volesse evitare di assumere, per i più svariati motivi, una posizione netta per il “Sì’” oppure per il  “No” – ritenendo, ad esempio, che un tale “aut-aut” non sia in grado di dar conto della complessità della questione in gioco – potrebbe, recandosi alle urne e votando scheda bianca, dare piena soddisfazione al suo personale avviso, senza la pretesa di compromettere l’orientamento altrui.

Ci siamo allontanati dalla domanda iniziale, relativa all’effettivo valore di autentica e piena “ partecipazione democratica” dei referendum. Si tratta, ad ogni modo, di un quesito tutt’altro che marginale, su cui è necessario, quanto prima, tornare a riflettere.

Domenico Galbiati

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