L’intervento della presidente del Consiglio all’Assemblea nazionale della Cisl nell’occasione della nomina del nuovo Segretario generale, con il passaggio delle consegne da Luigi Sbarra a Daniela Fumarola , e l’elogio per l’atteggiamento costruttivo e aperto assunto nel confronto con il Governo in carica, differenziando la posizione rispetto all’atteggiamento ostile della Cgil e della Uil, hanno scatenato una ridda di commenti sulla presunta politicizzazione del ruolo delle grandi confederazioni sindacali a sostegno delle forze politiche della maggioranza o dell’opposizione.

L’atteggiamento costruttivo della Cisl rispetto ai Governi in carica non rappresenta una novità assoluta. È parte del DNA di un’organizzazione che privilegia storicamente il ruolo negoziale, e i risultati che ne possono derivare, senza particolari pregiudizi per i Governi di turno che scaturiscono dal libero voto degli elettori. Non sono una novità nemmeno gli scioperi generali e le manifestazioni di piazza della Cgil, che assumono una particolare intensità quando nel Governo di turno sono assenti, o svolgono un ruolo marginale, i partiti della sinistra italiana.

La vera novità è rappresentata dal fatto che, da molti anni a questa parte, si è ridotta la capacità delle grandi confederazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro di incidere sulla distribuzione del reddito prodotto utilizzando la leva della contrattazione collettiva e che, nel contempo, è aumentata in modo esponenziale la quantità delle rivendicazioni avanzate autonomamente verso lo Stato per orientare l’utilizzo delle risorse pubbliche a favore delle categorie produttive e dei ceti sociali rappresentati.

La centralità assunta dalla spesa pubblica, in particolare per la tutela dei bassi redditi, è stata in parte motivata dalla necessità di contrastare l’impatto di due grandi crisi economiche. Questa tendenza ha comportato anche un’inedita competizione tra le istanze elettorali avanzate dalle forze politiche e le rivendicazioni delle rappresentanze sociali con effetti degenerativi per la quantità e la qualità della spesa pubblica corrente e per i comportamenti collettivi.

Per sostenere con diverse modalità i bassi redditi e per erogare i sussidi alle categorie e ai ceti sociali colpiti dalle congiunture economiche negative (le indennità per la carenza di lavoro, gli sgravi fiscali e contributivi sui costi del lavoro e sulle retribuzioni, gli anticipi dell’età di pensionamento, i bonus e gli accessi agevolati alle prestazioni e ai servizi con l’utilizzo delle dichiarazioni Isee) sono stati destinati nel corso degli ultimi 15 anni oltre 800 miliardi di euro di spesa aggiuntiva per le finalità assistenziali.

I risultati ottenuti da queste politiche non sono esaltanti dato che, nel medesimo periodo, si è verificato un notevole aumento del numero delle persone povere  e di quelle a rischio di diventare tali. I numeri sono noti, ma paradossalmente i riscontri fallimentari vengono utilizzati anche da una parte rilevante dei sostenitori di queste politiche per motivare l’esigenza di destinare ulteriori risorse pubbliche nella stessa direzione.

Il rapporto tra le forze politiche e le rappresentanze sociali che abbiamo descritto è molto diverso dalla dinamica della concertazione tra i Governi tecnici e di emergenza e le parti sociali che negli anni ’90 del secolo scorso hanno consentito affrontare una fase di grave emergenza economica. Compensando anche il deficit di governabilità generato dalla dissoluzione dei partiti della prima repubblica e avviando una stagione di riforme del welfare e del mercato del lavoro che, purtroppo, non ha riscontrato negli anni successivi uno sviluppo analogo a quello della gran parte dei Paesi dell’Ue a 15.
L’attuale modello della contrattazione collettiva rimane essenzialmente ancorato al ruolo dei contratti nazionali delle singole categorie produttive che propongono come principale obiettivo la tutela del valore reale dei salari dei lavoratori dello specifico settore, ma che risulta privo della spinta propulsiva esercitata a suo tempo dai contratti collettivi dell’industria manifatturiera, delle pubbliche amministrazioni e delle aziende dei servizi in monopolio. Nel contesto italiano la terziarizzazione delle attività economiche è connotata dalla crescita dell’occupazione nei settori dei servizi privati caratterizzati da una rilevante presenza delle piccole imprese con tassi di investimento contenuti e dalla bassa crescita della produttività fallimentari capitale e del lavoro.
Le relazioni contrattuali più innovative, capaci di combinare l’utilizzo delle nuove tecnologie con il miglioramento delle condizioni salariali e di lavoro dei dipendenti, trovano riscontro nella contrattazione articolata delle medie e grandi aziende manifatturiere, dei servizi nelle attività produttive e dei servizi stimolate dalla competizione internazionale. Ma il livello di coinvolgimento della quota dei lavoratori occupati non supera il 30% del totale.

In generale buona parte del nostro sistema produttivo rimane caratterizzato dal sottoutilizzo delle risorse tecnologiche, organizzative e umane disponibili. Una condizione incompatibile con l’evoluzione delle dinamiche geopolitiche internazionali e con l’impatto dell’invecchiamento della popolazione sulla riduzione delle persone in età di lavoro e sulla crescita della spesa pubblica per le pensioni e la sanità.

Il paradosso italiano è rappresentato dalla rilevante quota dei lavoratori formalmente tutelata dai contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle federazioni categoriali dei datori di lavoro e dei lavoratori aderenti alle Confederazioni maggiormente rappresentative (il 94% del totale dei lavoratori) e dal costante allontanamento del valore dei salari reali rispetto alla media degli altri Paesi sviluppati. Un’evoluzione che non trova giustificazione nel contesto di una domanda di lavoro che non riscontra lavoratori disponibili e per l’esigenza conclamata di far crescere le competenze delle risorse umane come condizione indispensabile per aumentare l’impiego delle nuove tecnologie e la produttività delle organizzazioni del lavoro.

Una risposta possibile può essere offerta da una riforma della contrattazione collettiva capace di valorizzare il concorso dei lavoratori all’aumento della produttività e ai risultati delle imprese e la crescita degli investimenti nelle nuove tecnologie in parallelo a quella delle competenze dei lavoratori. Una direzione di marcia delle relazioni sindacali finalizzata ad aumentare il tasso di utilizzo del risparmio, delle tecnologie e delle risorse umane, a orientare un’equa redistribuzione dei risultati ottenuti e migliorare l’attrattività del nostro mercato del lavoro.

Il grado di autonomia e di credibilità delle rappresentanze dei lavoratori non può essere valutato dalla vicinanza alle forze politiche affini, ma dalla capacità di incidere sui processi reali. In tal senso esiste una grande differenza tra l’evocazione di una rivolta sociale, che trascura le responsabilità e le carenze del ruolo esercitato dalle rappresentanze sociali, e la messa in campo delle proposte di riforma che valorizzano il ruolo delle parti sociali nella direzione di conciliare l’interesse di parte con quello generale.

Natale Forlani

Pubblicato su www.ilsussidiario.neti

About Author