Chi parla di fine vita, sa di che cosa si tratta realmente? Quali implicazioni morali, etiche e non solo giuridiche comporta? Può forse bastare il consenso di un comitato di bioetica per tacitare le coscienze? Non sono domande retoriche, né dettate da profonde convinzioni a favore della vita, sono domande che attengono, invece, alla dimensione sacrale della persona che è un valore al di là di ogni convinzione.

Sul crinale dell’Infinito nessuno ha la risposta giusta, né può avvalersi del diritto di darne una, ma deve rispettare quell’intimità profonda e unica che pone la persona di fronte al mistero della creazione e della finitudine dell’essere umano e persino di fronte alla speranza di un miracolo. Sul crinale dell’Infinito tutto si complica, ma di tale complicazione poco si avverte nel dibattito che appare, invece, solo a senso unico, senza nulla dire di quella realtà che è il mondo della medicina palliativa. Proprio in Puglia essa ha toccato vertici di eccellenza con l’Ant e poi con l’Amopuglia. Se tutto questo non entra nel dibattito, se l’eubiosia, la buona vita non diventa la bussola di riferimento costante, allora è alto il rischio di fare scempio della vita e scarto della persona malata inguaribile, ma non incurabile.

L’eubiosia non è solo la buona vita, ma anche la buona morte che non è quella invocata o anticipata, ma quello stretto connubio tra l’esistenza vissuta pienamente ed esperita negli ambiti della socialità e l’esito finale di un percorso di maturazione della finitudine umana. In questi casi il pericolo assai serio è la banalizzazione della morte come esito banalizzante della vita.

Il dibattito in atto, soffermandosi quasi esclusivamente sull’idea del diritto personale, rifugge il pensiero della fine naturale. Qual è dunque l’antropologia di fondo, la visione dell’uomo che sottende il diritto a morire? Paradossalmente, l’aspetto più complicato non è tanto quello di circoscrivere la morte e assicurare il morire, quanto quello assai più rischioso di circoscrivere la vita, riducendone illegittimamente la sua portata esistenziale. Questa è la difficoltà vera.

È necessario una riflessione ponderata, approfondita in cui tutti gli aspetti devono essere tenuti in considerazione. Occorre chiamare a testimoniare coloro che con il malato inguaribile si misurano quotidianamente. Il loro contributo potrebbe essere illuminante e portare nel dibattito valutazioni e valori che trascendono le questioni ideologiche. Poiché la morte non è mai un gioco a somma zero, lascia strascichi profondi e spesso indelebili.

Pasquale Pellegrini

Pubblicato su il Corriere del Mezzogiorno

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