Si fa un gran parlare delle condizioni del Paese e forte è la tentazione di tirare solo l’acqua al proprio mulino. Viviamo un’epoca in cui persino i dati sono interpretati, ed utilizzati, per la comunicazione spettacolare. Quando, invece, sappiamo bene che la politica ha perso molta della sua credibilità perché i fatti non coincidono, non solo con le promesse, ma soprattutto con il reale stato delle cose.
Si preferisce affidarsi ai “macro numeri” senza andare sotto la loro superficie, dentro cui fluttua la vita vera delle persone. E così, l’utilizzazione, e la propaganda, sui dati sul Pil, sull’occupazione, sull’inflazione non la raccontano completamente in maniera realistica. E questo perché c’è bisogno di enfatizzare ed auto esaltarsi. Nonostante si vedano bene le reazioni della gente comune e le difficoltà che incontra la stragrande maggioranza della popolazione, quella che soprattutto vive di un lavoro dipendente, quando non precario e sottopagato.
Il fine anno ha costituito la tradizionale occasione per fare un bilancio più preciso, dopo che nei mesi scorsi siamo stati sottoposti ad una pioggia di dati che, appunto, non sono sempre stati scomposti, contestualizzati e, quindi, analizzati a dovere.
L’inflazione è una di quelle questioni su cui sarebbe necessario approfondire i numeri. Se quella generale segnala una sostanziale stabilità, pesa l’aumento del costo dei prodotti energetici, e questi giorni sono segnalati i balzi alla pompa per benzina e diesel. Crescono anche i livelli d’inflazione dei prodotti alimentari, per la casa e la cura delle persone cosiddette a più alta frequenza d’acquisto, cioè quelli più comperati.
I macro dati che potrebbero far ben sperare devono fare, invece, i conti con un segnale davvero preoccupante: quello della produzione, rispetto all’anno precedente scesa del 5%. Un andamento oramai consolidato mese per mese. E’ soprattutto la manifattura a retrocedere. Ne abbiamo parlato più volte in relazione all’andamento, altrettanto negativo, del settore in Germania e Francia (CLICCA QUI). E quindi c’è poco dal godere sulla cattiva congiuntura affrontata da altri. In particolare da economie cui è strettamente collegata la nostra.
C’è quindi, come fa Massimiliano Dona, Presidente dell’Unione nazionale consumatori, chi parla di una vera e propria “Caporetto” dopo 22 mesi consecutivi di andamento negativo.
Così, è in questo contesto che devono essere valutati i numeri sull’occupazione. Una delle ultime indicazione è stata quella del tasso di disoccupazione nell’area euro che, ci ha detto Eurostat, sarebbe rimasta sostanzialmente stabile rispetto all’anno precedente, e presentando comunque 12,968 milioni di persone disoccupate nella intera Ue, di cui 10,819 milioni nell’area euro.
Lo stesso Eurostat, però ci ha anche detto che il tasso di disoccupazione giovanile è stato del 15,3% con una crescita do questo tipo di disoccupazione di altre 159.000 unità nell’UE e di 101.000 nell’area euro. L’Italia resta particolarmente indietro per quanto riguarda il tasso di occupazione, soprattutto femminile. E così sembra emergere un’apparente contraddizione sui numeri forniti recentemente sulla diminuzione del tasso di disoccupazione e quelli sul tasso di occupazione. Secondo gli esperti, il tutto sarebbe spiegato dal fatto che tantissimi disoccupati sono entrati nella fascia di coloro che sono detti “Neet”, cioè quanti non studiano più, non lavorano e non sono alla ricerca di un’occupazione. E così il nostro Paese, preceduto solo dalla Romania, registra la più alta percentuale di inattivi.
“Se si approfondiscono i dati – ha ricordato recentemente Giuliano Cazzola (CLICCA QUI)- ci si accorge che vi sono settori di lavoratori che appartengono a più di una classificazione e che, pertanto, vengono contati più volte. Noi siamo indotti da una lettura a canne d’organo delle statistiche e a considerare come corpi separati, vere e proprie “monadi senza porte né finestra” le platee dei disoccupati, dei neet, dei lavoratori irregolari, mentre si tratta di realtà che si mescolano e si giustappongono”. E Cazzola lo dimostra prendendo in considerazione i dati di ottobre riferiti alle grandi ripartizioni occupati/disoccupati: “rispettivamente 24 milioni 92mila i primi e 1 milione 472mila i secondi. A questi vanno aggiunte 2 milioni 986mila di unità irregolari. Gli inattivi vengono contati in numero pari a 12.538.000. il risultato finale è pari a 41milioni e 88mila unità. Ma la popolazione in età lavorativa (15-64 anni) nel 2024 è pari a 37.428.227”. La conclusione è quindi che circa quattro milioni di lavoratori sono contati più volte.
Le conclusioni di Cazzola non possono che essere condivise: nessuna economia sviluppata potrebbe permettersi un tasso così alto di inattivi.
Altri numeri sull’occupazione devono fare riflettere anche in relazione agli immigrati. L’anno si è aperto con una differenza tra offerte e domande di lavoro pari a 246mila assunzioni delle 497mila programmate. Il turismo è il comparto con più offerte di lavoro. Segue il commercio. Ma la dota dolente viene dall’industria manifatturiera e dai servizi all’impresa, come segnalato dal Bollettino del Sistema informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere e ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. A conferma del calo della produttività già segnalata da un anno a questa parte e del pessimismo degli imprenditori dell’intero settore.
Emerge, inoltre, che a gennaio le imprese programmano 89mila assunzioni di lavoratori immigrati, con il 18% del totale. In particolare, nei settori dei servizi operativi, nei trasporto e logistica, nelle industrie metallurgiche, nelle costruzioni e nei servizi di alloggio e ristorazione.
Infine, una breve riflessione sul carico fiscale, sempre affidandoci a Giuliano Cazzola secondo il quale il nostro è un Paese ” che finge di essere ciò che non è”, se si analizza il carico Irpef negli ultimi 15 anni: “E’ rimasta sostanzialmente invariata la quota di contribuenti che effettivamente sostiene il Paese con tasse e contributi, e di contro è troppo alta quella di cittadini totalmente o parzialmente a carico della collettività: infatti, malgrado il miglioramento PIL e occupazione, il 45,16% degli italiani, apparentemente è privo di redditi e di conseguenza vive a carico di qualcuno. Su 42 milioni di dichiaranti, poi, il 75,57% dell’intera IRPEF è pagato da circa 10 milioni di milioni di contribuenti, mentre i restanti 32 ne pagano solo il 24,43%. In sostanza, l’Italia è un paese di poveri benestanti. Grazie all’arte di arrangiarsi il convento è povero, i frati no”.
La conclusione, come si ripete all’infinito su queste pagine, bisogna che, a partire dalla Politica, si cambi registro, metodo di analisi e linguaggio. Perché le autoesaltazioni non solo non servono, ma finiscono per impedire di fare le scelte più necessarie al nostro Paese.
Alessandro Di Severo