Anche i “popolari” confluiti nel PD vagheggiano il “centro”? E perfino non escludono l’eventualità di abbandonare il Partito Democratico per dare vita ad una iniziativa autonoma? Se fosse cosi’ si aprirebbe una prospettiva rilevante per due aspetti, problematica per un altro verso.

Sarebbe rilevante riprendere, secondo una postura “autonoma” – che in nessun modo significhi chiamarsi fuori o in qualche modo appartarsi nel “discorso pubblico” che attraversa il Paese, nell’ attuale frangente storico – la riflessione, l’ aggiornamento e lo sviluppo del pensiero politico cattolico-democratico, risalendo, attraverso Moro e De Gasperi, fino al “popolarismo” sturziano e da Sturzo su fino al cattolicesimo liberale di Rosmini, Gioberti e Manzoni. Ed è altrettanto importante, per quanto tardivo, riconoscere come sia stata – e necessariamente continui ad essere – di per se’, controproducente ed improduttiva una strategia diretta alla fusione in un unico partito di due popolarismi – quello cattolico e quello piu’ propriamente di sinistra e di ascendenza marxista – similari, cioe’ rispondenti ad una intenzione comune , eppure differenti nella loro ultima radice e, dunque, non sovrapponibili, cosicché piuttosto che potenziarsi a vicenda, hanno finito per elidersi l’un l’altro.

Si tratta, piuttosto, di riscoprire il concetto di “coalizione”, nel senso degasperiano del termine, quale spazio ideale di incontro tra culture differenti e soggetti diversi, che restano tali eppure trovano motivi e momenti di convergenza in una mediazione che sia intesa nel senso nobile del termine, cioe’ capace di cogliere un punto condiviso, nell’interesse generale del Paese, sufficientemente alto da poterne derivare visioni che restano “altre” una rispetto all’ altra, eppure, in quel determinato passaggio storico, capaci di collimare in un’ azione comune.

Il punto problematico concerne il fatto di evocare, anche qui, il fatidico “centro”, che soprattutto quando risuona sulle labbra dei cattolici, reca inevitabilmente con sé, per antica consuetudine, almeno nell’ immediatezza del linguaggio comune, il concetto di “moderazione”.

Su queste pagine sosteniamo da anni che “centro” e “moderazione” sono parole che gli addetti ai lavori usano convenzionalmente, eppure, al di là del loro merito, nell’ attuale contesto diventano, per forza di cose, equivoche ed andrebbero quindi espunte dal lessico della politica. Le parole sono vive, nascono, crescono, evolvono e poi, all’occorrenza, quando non sanno più dar conto di ciò che pur dovrebbero significare muoiono e vanno, dunque, sostituite da altri termini, per quanto fatichiamo a focalizzarli.

La “moderazione” è preziosa, eppure nell’ accezione comune della generale opinione pubblica viene, se così si può dire, invariabilmente, translitterata in “moderatismo”. Ed il “moderatismo” è ciò di cui meno abbiamo bisogno.
Vale soprattutto per i cattolici che, in questa fase, sono evocati, piuttosto che ad un ruolo di potere, all’ oneroso compito della profezia. Intesa come capacità di “vedere”, intuire e cogliere d’un sol tratto quale sia la “destinazione”, il percorso lungo il quale l’ umanità e’ incamminata.

Siamo letteralmente assediati da una pluralità di processi di trasformazione, ognuno dei quali vale una rivoluzione, senonché oggi premono su di noi tutti insieme e sinergicamente. Rispondendo ad un tratto comune: creano un formidabile campo gravitazionale antropologico che ci attraversa da ogni dove e curva la comprensione che abbiamo di noi stessi. Non e’ piu’ lecito giocarcela con parole esauste, superate e fuori tempo.

Lo sviluppo della ricerca scientifica e le biotecnologie che ne derivano stanno producendo un fenomeno mai conosciuto fin qui: l’ uomo e’, ad un tempo, soggetto ed oggetto della sua azione, con tutto ciò che tale insuperabile specularità implica. La “digitalizzazione” sta radicalmente alterando il nostro approccio mentale alla realtà, mutando gli stessi processi neuronali che vi presiedono. L’informatizzazione e lo sviluppo esponenziale della comunicazione sostituiscono alla concreta, palpabile consistenza delle cose, la loro rappresentazione ideale, come se potessimo catturare ed esaurire la complessità del mondo in una concertazione di patterns cerebrali, smarrendo l’inesauribile pluralità delle sue forme e della sua ricchezza.

La globalizzazione, pur nel flusso e riflusso dei momenti che ora la enfatizzano, ora la riassorbono e la frenano, determina una condizione tale per cui – l’abbiamo vissuto sulla nostra pelle nel corso della pandemia – ogni gesto messo in atto da ciascuno risuona, nel contesto circostante, secondo una pervasività del tutto inedita e mostra, con evidenza inappuntabile, come davvero l’ umanità sia una ed una sola. Con buona pace di chi non sa leggere la vera natura dei fenomeni migratori e, per altro verso, della crisi ambientale, ambedue processi che concorrono a fare la “storia” che lasceremo in eredità alle generazioni che verranno dopo di noi.

La politica ha, ovviamente, a che vedere con tutto questo e piuttosto che spigolare qua e là nel seminato alla ricerca di più o meno improbabili “federatori”, dovrebbe riaccendere i motori alla ricerca, se appena le riesce, di un “pensiero forte” che le permetta di orientare un quadro del genere. Assumendo che il classico e tradizionale “riformismo” non ce lo la fa, laddove è piuttosto necessario ricorrere a percorsi di “trasformazione” dell’ apparato concettuale, sociale e politico con cui siamo chiamati ad affrontare questa stagione nuova, difficile, sfidante e straordinariamente ricca.

Resta da dire, in una prossima occasione, perché sia bene, in questo specifico e particolare momento, che anche la parola “centro” sia abbandonata al suo destino.

Domenico Galbiati

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