Perché ci vuole coraggio per decidere? Non sono forse sufficienti l’intelligenza e la conoscenza tecnica che invece sono sufficienti per scegliere? No, perché ovunque vi sia una decisione da prendere nasce un dubbio e questo può “pietrificare”, come nel mito della testa di Medusa che occorreva tagliare (“decidere”) perché non paralizzasse chi le stava di fronte. Finché l’indecisione riguarda i mezzi, razionalità e pratica sono sufficienti a sbloccare la paralisi. Altra, invece, la situazione quando la decisione riguarda i fini dell’agire, lo scopo in vista del quale si agisce. In situazioni del genere, un aumento della conoscenza non solo non è più un rimedio sicuro alla paralisi, ma può persino aggravarla, fino a condurre all’immobilismo. La minaccia più seria alla nostra libertà, oggi, non è tanto quella che viene dalla costrizione esterna e tanto meno dalla scarsità delle risorse, quanto piuttosto dalla incapacità di decidere. Il coraggio è la forza interiore che ci abita (il desiderio) e che ci spinge avanti.
Come scongiurare il rischio di fare la fine dell’asino di Buridano? La risposta ci viene dall’Aquinate che nella Summa scrive: “Si dicono parti potenziali di una virtù [il coraggio è una virtù cardinale] quelle virtù supplementari che sono ordinate a materia e ad atti particolari … È tale la gnome che attiene al giudizio su quelle cose che esigono un’eccezione alla legge ordinaria”. (IIae, quest. 48). In altro modo, la gnome (l’ingegno) è la capacità di leggere e interpretare le res novae del contesto in cui ci si viene a trovare nelle fasi di accelerato mutamento. In tali fasi, la “legge ordinaria” cessa di essere una guida sicura. Ci vuole allora un supplemento di capacità di giudizio (la gnome appunto) per trovare la regola da cui lasciarsi guidare.
Nel suo The absence of Mr. Glass (1914), Gilbert K. Chesterton contrappone la specialistica competenza di un criminologo, il dr. Orion Hood, all’ingenuità del goffo personaggio dei suoi scritti polizieschi, padre Brown. Le indagini del primo falliscono, mentre il secondo approda alla verità del caso. Perché? Hood è l’esperto, colui che “s’interessa di teorie in grande e che è sempre felice di applicarle anche a qualsiasi insignificante sciocchezza”. Applicando queste teorie agli indizi raccolti, egli riesce a giungere a una soluzione, che considera l’unica possibile e certamente la più attendibile. Ma si sbaglia. Al contrario, l’attenzione posta da padre Brown su alcuni particolari trascurati e la non ortodossa interpretazione data ad altri, lo fanno giungere alla vera soluzione.
Padre Brown è capace di risolvere i più intricati casi polizieschi grazie ad un particolare sguardo sul mondo e grazie ad un modo di procedere che è tutto il contrario di quello razionalista del dr. Hood. Padre Brown sa scoprire dove si nasconde il male perché ha un’idea precisa di che cosa esso sia. Sa dunque trovare il colpevole perché non indugia sugli aspetti meccanici della trasgressione e della colpa. All’astuto criminale che mai avrebbe pensato di poter essere scoperto e che, affranto, gli chiede: “Ma voi siete il diavolo?”, padre Brown risponde: “Sono un uomo e quindi ho tutti i diavoli nel mio cuore”.
Perchè, allora, non decidersi di mutare il nostro sguardo sulle cose, cioè il paradigma?
Con l’augurio di tanta gioia,
Stefano Zamagni