La Rivista Nova Itinera ha pubblicato, a firma del direttore, il magistrato Stefano Amore, il seguente articolo che fa il punto sui diritti della Donna in Italia

Nel 1946, per la prima volta in Italia, le donne votano, partecipando alle elezioni amministrative che si tengono tra marzo e aprile e, poi, il 2 giugno, al referendum istituzionale, che sancirà la nascita della Repubblica, e all’elezione dell’Assemblea Costituente1.

Il 1 febbraio 1945 era stato emanato il decreto legislativo luogotenenziale n. 23, che aveva conferito il diritto di voto a tutte le italiane con almeno 21 anni (cd. decreto Bonomi), ma senza fare menzione dell’elettorato passivo, che venne attribuito alle donne, con almeno 25 anni di età, dal successivo decreto luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74.
Grazie a queste disposizioni, le italiane poterono, finalmente, non solo esprimere il loro voto, ma anche eleggere all’Assemblea Costituente 21 donne (in realtà, solo il 4% dell’Assemblea, che contava 556 componenti). Un segno evidente e immediato di quanto questo obiettivo fosse ormai maturo e fortemente voluto si ricava dall’affluenza elevatissima delle donne ai seggi elettorali il 2 giugno 1946 (voteranno 14.600.000 donne a fronte di 13.350.000 uomini). Non si tratta, però, solo del raggiungimento di un risultato, ma anche dell’inizio di un percorso che durerà molti decenni. E che, in buona parte, si può identificare con il processo di attuazione della Costituzione italiana.
Una Costituzione che tutela le donne in molte delle sue disposizioni2, ma che ha incontrato non pochi ostacoli nella sua attuazione. Basti pensare che solo nel 1965 otto donne prenderanno, finalmente, servizio in magistratura3. A rendere possibile la partecipazione al concorso sarà l’entrata in vigore della legge 9 febbraio 1963, n. 66, che consentirà l’accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura, dando attuazione alla sentenza n. 33 del 1960 della Corte costituzionale, con cui era stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, nella parte in cui escludeva le donne dai pubblici uffici che implicassero l’esercizio di diritti e di potestà politiche.

«Non può essere dubbio», aveva evidenziato la Corte costituzionale in quella sentenza, «che una norma che consiste nello escludere le donne in via generale da una vasta categoria di impieghi pubblici, debba essere dichiarata incostituzionale per l’irrimediabile contrasto in cui si pone con l’art. 51, il quale proclama l’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive degli appartenenti all’uno e all’altro sesso in condizioni di eguaglianza. Questo principio è stato già interpretato dalla Corte nel senso che la diversità di sesso, in sé e per sé considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa, non può comportare, cioè, un trattamento diverso degli appartenenti all’uno o all’altro sesso davanti alla legge. Una norma che questo facesse violerebbe un principio fondamentale della Costituzione, quello posto dall’art. 3, del quale la norma dell’art. 51 è non soltanto una specificazione, ma anche una conferma».

Per comprendere le difficoltà che incontrarono le donne ad accedere alla magistratura, basta rileggere l’intervento dell’On. Bettiol all’Assemblea Costituente: «C’è un altro problema da tenere presente, al quale ha accennato per primo il collega Villabruna; e mi ha quasi preso la parola di bocca: il problema delle donne nella amministrazione della giustizia. «San Paolo diceva: “Tacciano le donne nella Chiesa”. Se San Paolo fosse vivo direbbe: “Facciano silenzio le donne anche nei tribunali”, cioè non siano chiamate le donne ad esplicare questa funzione, la quale può arrivare (per fortuna noi abbiamo eliminato in parte questo pericolo) a pronunziare una sentenza di morte. Ed è assurdo, doloroso, inconcepibile che una donna, chiamata da Dio e dalla natura a dare vita, sia chiamata anche a dare, in casi tristi, la morte. D’altro canto, il problema della donna nell’amministrazione della giustizia deve essere risolto anche in base a quelle che sono le caratteristiche ontologiche di essere uomo o donna. Perché il problema dell’amministrazione della giustizia è un problema razionale, è un problema logico, che deve essere impostato e risolto in termini di forte emotività, non già di quella commozione puramente superficiale che è propria del genere femminile, di quella commozione puramente superficiale di cui sono spesso dotati gli ingegni di giurati chiamati dai solchi o dalle officine a esprimere il loro parere in relazione a un caso concreto. Quindi, a mio avviso, le donne non dovrebbero essere chiamate ad esplicare la funzione giurisdizionale»4.

A dare l’esatta prospettiva della difficile attuazione dei principi costituzionali nell’ordinamento italiano possono essere le considerazioni fatte da un altro dei Padri Costituenti, Piero Calamandrei, che aveva, invece, sostenuto la tesi di inserire in Costituzione una disposizione che stabilisse esplicitamente il diritto delle donne di accedere alla magistratura e che, nella sua arringa dinanzi al Tribunale penale di Palermo nel processo a carico di Danilo Dolci, arrestato il 2 febbraio 1956 per aver promosso e capeggiato, insieme con alcuni suoi compagni, una manifestazione di protesta contro le autorità che non avevano provveduto a dar lavoro ai disoccupati della zona, aveva evidenziato che: «Le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo […] altrimenti, le leggi non restano che formule vuote», aggiungendo che «La funzione dei giudici, meglio che quella di difendere una legalità decrepita, è quella di creare gradualmente la nuova legalità promessa dalla Costituzione»5.
In questo processo di lenta evoluzione della legalità costituzionale, un momento di svolta è, indubbiamente, rappresentato proprio dall’istituzione della Corte Costituzionale e dall’avvio della sua attività nel 1956, un’attività che impronterà significativamente, e sempre di più nel tempo, non solo la cultura giuridica, ma anche quella popolare6, consentendo, soprattutto ai giovani, di acquisire piena consapevolezza dei valori costituzionali. Anche in questo caso soccorrono le riflessioni di Calamandrei: «La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, lo lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito (..) Quindi voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come vostra»7.

Un percorso non lineare, comunque, in cui, accanto, a significativi passi in avanti, vi furono anche molti momenti di incertezza e di stallo. Basti pensare, continuando ad esaminare la giurisprudenza costituzionale, alla sentenza del 27 dicembre 1965, n. 101, che riconobbe legittime le norme che accordavano soltanto al padre il potere di costituirsi parte civile nell’interesse del minore; alla sentenza 8 luglio 1967, n. 102, che confermò la legittimità delle norme del codice civile che conferivano al padre l’esercizio della patria potestà; alla sentenza 23 maggio 1966 n. 49, che concluse per la legittimità delle norme che, nella ipotesi di seconde nozze, riservavano al vedovo e alla vedova un diverso trattamento in ordine alla amministrazione dei beni del figlio; alla sentenza 21 giugno 1966 n. 71 che pure riconobbe la legittimità della norma del codice civile che attribuiva al padre la patria potestà sul figlio naturale riconosciuto da entrambi i genitori8.

Con la sentenza 16 dicembre 1968, n. 168, la Corte costituzionale dichiarò l’illegittimità costituzionale del primo e del secondo comma dell’art. 559 del codice penale, che puniva l’adulterio, dopo una prima sentenza, la n. 64 del 23 novembre 1961, con cui aveva, invece, ritenuto non fondata la questione.

La Corte, in quella tanto attesa pronuncia, ebbe modo di affermare che: «4. Il principio che il marito possa violare impunemente l’obbligo della fedeltà coniugale, mentre la moglie debba essere punita – più o meno severamente – rimonta ai tempi remoti nei quali la donna, considerata perfino giuridicamente incapace e privata di molti diritti, si trovava in stato di soggezione alla potestà maritale. Da allora molto è mutato nella vita sociale: la donna ha acquistato pienezza di diritti e la sua partecipazione alla vita economica e sociale della famiglia e della intera collettività è diventata molto più intensa, fino a raggiungere piena parità con l’uomo; mentre il trattamento differenziato in tema di adulterio è rimasto immutato, nonostante che in alcuni stati di avanzata civiltà sia prevalso il principio della non ingerenza del legislatore nella delicata materia». Proseguendo nella motivazione della sentenza, la Corte rilevava che «è questione di politica legislativa quella relativa alla punibilità dell’adulterio. Ma, poiché la discriminazione fatta in proposito dall’attuale legge penale viola il principio di eguaglianza fra coniugi – il quale rimane pur sempre la regola generale – occorre esaminare se essa sia essenziale alla unità familiare. Infatti solo in tal caso sarebbe ammissibile il sacrificio di quel principio di base nel nostro ordinamento. Ritiene la Corte, alla stregua dell’attuale realtà sociale, che la discriminazione, lungi dall’essere utile, è di grave nocumento alla concordia ed alla unità della famiglia. La legge, non attribuendo rilevanza all’adulterio del marito e punendo invece quello della moglie, pone in stato di inferiorità quest’ultima, la quale viene lesa nella sua dignità, è costretta a sopportare l’infedeltà e l’ingiuria, e non ha alcuna tutela in sede penale. Per l’unità familiare costituisce indubbiamente un pericolo l’adulterio del marito e della moglie, ma, quando la legge faccia un differente trattamento, questo pericolo assume proporzioni più gravi, sia per i riflessi sul comportamento di entrambi i coniugi, sia per le conseguenze psicologiche sui soggetti. La Corte ritiene pertanto che la discriminazione sancita dal primo comma dell’art. 559 del Codice penale non garantisca l’unità familiare, ma sia più che altro un privilegio assicurato al marito; e, come tutti i privilegi, violi il principio di parità».

Ancora più tempo ci volle per cancellare dall’ordinamento la rilevanza penale della causa d’onore e l’istituto del matrimonio riparatore, abrogati dal legislatore soltanto nel 19819, dopo oltre 10 anni dall’entrata in vigore, nel 1970, della legge sul divorzio (confermata quattro anni dopo dal referendum popolare) e l’entrata in vigore, nel 1975, della riforma del diritto di famiglia. L’art. 587 del codice penale10 consentiva, infatti, che fosse sensibilmente ridotta la pena per chi avesse ucciso il coniuge, la figlia o la sorella al fine di difendere “l’onor suo o della famiglia”, con una disposizione astrattamente applicabile anche alla moglie che avesse ucciso il marito, ma che trovava applicazione quasi esclusivamente in casi in cui la vittima era una donna. Quanto all’istituto del “matrimonio riparatore”, previsto dall’art. 544 del codice penale11, esso determinava l’estinzione del reato di violenza carnale (considerato all’epoca un reato contro la morale e non contro la persona) nel caso in cui il colpevole accettasse di sposare la propria vittima.
A sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema fu la vicenda di Franca Viola che, nel 1965, era stata sequestrata e violentata dal suo ex fidanzato e che aveva rifiutato il matrimonio “riparatore”.

Nel 2006, Franca Viola, ricordando quei fatti in un’intervista, sottolineò: «Non fu un gesto coraggioso. Ho fatto solo quello che mi sentivo di fare, come farebbe oggi una qualsiasi ragazza: ho ascoltato il mio cuore, il resto è venuto da sé. Oggi consiglio ai giovani di seguire i loro sentimenti; non è difficile. Io l’ho fatto in una Sicilia molto diversa; loro possono farlo guardando semplicemente nei loro cuori»12. Nonostante il clamore mediatico della vicenda, si dovettero attendere ancora molti anni per vedere, finalmente, cancellata quella previsione normativa. Quanto al “delitto d’onore”, già nel 1961 Pietro Germi, con il suo film “Divorzio all’italiana”13, aveva, con toni ironici, ma non per questo meno realistici, messo il dito nella piaga di un ordinamento sociale e giuridico non più adeguato ai tempi, in cui il divorzio non era ancora consentito. Il delitto d’onore diviene, nella prospettiva del regista, espressione del pervertimento dell’ordinamento giuridico dell’epoca che, da un lato, nega al protagonista del film, il barone Ferdinando Cefalù, detto Fefè, interpretato da un immenso Marcello Mastroianni, lo strumento giuridico per sciogliere il matrimonio, consentendogli, però, grazie alla causa d’onore, di sbarazzarsi della moglie, l’assillante Rosalia, e di sposare la sua giovane e bellissima amante, dopo aver scontato meno di tre anni di carcere.
Il ritratto della provincia siciliana dell’epoca, in cui è ambientata la vicenda, è veramente impietoso, ma il film, nonostante i suoi accenti comici di commedia brillante, non si limita a denunciare solo il ritardo culturale di una parte del paese, mettendo sotto accusa, in realtà, le convenzioni sociali e il sistema normativo di tutta l’Italia degli anni sessanta.

Non meno difficili le rivendicazioni delle donne sul terreno del lavoro, per l’attuazione del dettato costituzionale sulla parità salariale e la realizzazione di una effettiva tutela della maternità in grado di garantire condizioni di lavoro adeguate. La legge 26 agosto 1950, n. 860 sulla “Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri” introdusse, infatti, il divieto di licenziamento dall’inizio della gestazione fino al compimento del primo anno di età del bambino; il divieto di adibire le donne incinte al trasporto e al sollevamento di pesi ed altri lavori pericolosi, faticosi o insalubri; il divieto di adibire al lavoro le donne nei tre mesi precedenti il parto e nelle otto settimane successive salvo possibili estensioni. E venne, inoltre, garantita l’assistenza medica al parto, periodi di riposo per l’allattamento e il trattamento economico nei periodi di assenza per maternità. Ma molte imprese reagirono imponendo nei contratti di assunzione la cosiddetta clausola di nubilato, che prevedeva il licenziamento della donna in caso di matrimonio, e che molti giudici ritennero legittima, sino all’entrata in vigore, dieci anni dopo, della legge 9 gennaio 1963, n. 7, che stabilì la nullità dei licenziamenti attuati a causa del matrimonio delle lavoratrici.

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, l’8 marzo 2018, in occasione della cerimonia della Giornata Internazionale della Donna, ha evidenziato che in Italia «Il percorso della parità non è stato semplice, né scontato. A partire dalla tutela delle lavoratrici madri, introdotta dalla legge del 1950, e opera dell’impegno di Teresa Noce e di Maria Federici. Tutela progredita, in seguito, con la riforma dei congedi di maternità del 1971, fino ad approdare, nel 2000 – dopo un trentennio – a una concezione della cura parentale come impegno da condividere tra entrambi i genitori. Nel cammino di avanzamento dei diritti del lavoro – compiuto da milioni di donne e segnato da battaglie sindacali e civili, talvolta aspre – possiamo ricordare, ancora, la tappa del 1963, quando venne introdotto il divieto di licenziamento a causa del matrimonio. E quella del 1977, che, con sempre maggiore aderenza al dettato costituzionale, ha affermato la piena parità di trattamento nel lavoro tra uomini e donne. La piena parità nel lavoro è un motore di sviluppo. La discriminazione, invece, ne costituisce un freno. Queste leggi hanno favorito la crescita del Paese, attraverso il cammino di liberazione della donna». Un cammino, in realtà, non ancora concluso.

Stefano Amore

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