Lo specchio del diavolo (Einaudi 2006), è una originale storia dell’economia in cui Giorgio Ruffolo percorre le tappe che vanno dalla nascita dell’agricoltura fino alla attuale economia globalizzata, guidando i lettori in un viaggio che analizza i rapporti tra economia e tecnica, tra economia e moneta e tra economia e politica. Ve ne propongo una breve sintesi perché è un libro più che mai attuale, utile a comprendere il tempo in cui viviamo. Purtroppo non posso soffermarmi, per ragioni di spazio, sulla pur interessante storia dei rapporti tra economia e politica dalle società primitive fino alla rivoluzione industriale. Riprendo, pertanto, il discorso di Ruffolo a partire da quest’ultima epoca.

Già con la nascita dell’agricoltura, l’uomo si era distaccato dalla natura e aveva perso l’innocenza propria del cacciatore raccoglitore preistorico (l’età dell’oro) provocando le prime rotture degli equilibri ambientali, ma un cambiamento radicale nel rapporto tra l’uomo e la natura si è verificato solo a partire dal XVIII secolo quando, nella nascente organizzazione industriale, è stata introdotta la nuova energia del vapore generata dal carbone, e la vicenda umana si è avventurata in un percorso di direzione ignota, in una corsa senza traguardo, sostenuta dalla sua stessa propulsione.

In tale epoca, è stata realizzata la mercatizzazione dei fattori produttivi (terra, lavoro e moneta), e ha preso avvio l’abbattimento delle barriere protezionistiche all’interno del mercato nazionale e nel commercio internazionale. L’economia ha assunto le caratteristiche di un grande sistema in grado di reggere il confronto con il sistema politico (per Marx diventato una sovrastruttura). Con l’uscita di scena dell’aristocrazia, i borghesi hanno avuto accesso alle grandi cariche dello Stato. Si determinò così una convergenza tra Stato nazionale e mercato nazionale, e si affermò un nazionalismo aggressivo e un capitalismo sfrenato. In mezzo ai conflitti sociali e a quelli nazional-imperialisti, con le due guerre mondiali, si è compiuto il disastro dell’Europa.

Nel secondo dopoguerra, è venuta meno l’alleanza tra le democrazie capitalistiche e il comunismo sovietico, ed è scoppiata la guerra fredda. Tuttavia, in tale periodo, gli USA hanno esercitato in modo responsabile il ruolo di potenza dominante nell’area occidentale, aprendo un’era di cooperazione internazionale con il piano Marshall e consentendo all’Europa di rimettersi in piedi. Hanno fornito, inoltre, al nuovo sistema monetario dei cambi fissi una moneta stabile di riserva, emessa in quantità adeguata. L’economia sociale di mercato e il sistema di cooperazione mondiale di Bretton Woods hanno dato luogo a una fase di crescita economica e diffuso un clima di fiducia nel futuro. In tale periodo, il compromesso socialdemocratico ha rappresentato, in Europa, il punto più alto del rapporto difficile tra democrazia e capitalismo e tra Stato e mercato: lo Stato assicurava all’economia capitalista un livello di domanda corrispondente alla piena occupazione e svolgeva una funzione equilibratrice mediante un’ampia ridistribuzione delle risorse, garantendo a tutti un alto grado di protezione.

Ma, evidenzia Ruffolo, il capitalismo è come Prometeo: imprendibile, sfuggente e cangiante. Ed ecco che oggi si ripresenta con tutti i suoi spiriti animaleschi. Dietro a questa nuova fase, c’è il pensiero di Milton Friedman, padre del monetarismo, una riedizione estremista del liberismo fondata sulla presunta capacità del mercato di autoregolarsi, da cui deriva l’obbligo per lo Stato di astenersi da qualunque intervento che non sia quello di assicurare la quantità di moneta necessaria allo svolgimento delle transazioni.

All’insegna di questa ortodossia, si è sviluppata una controffensiva del capitalismo, iniziata dal crollo del sistema monetario di Bretton Woods, a cui, al venir meno della regolazione dei cambi, è seguita la deregolamentazione dei movimenti di capitali. Decisione rivoluzionaria perché i grandi economisti liberali (Smith, Ricardo e Keynes) erano contrari a questo tipo di liberismo: per essi, le merci devono circolare liberamente, ma uomini e capitali devono stare a casa propria. Solo così è possibile garantire l’identità culturale di una società e, sul terreno economico, si assicura l’osservanza del principio dei costi comparati (ogni Paese deve produrre i prodotti a cui è più idoneo), che deve avere punti di riferimento stabili nella distribuzione dei fattori produttivi (terre, uomini e capitali).

La soppressione delle barriere ha riversato sul mercato finanziario un grande flusso di “finanza libera” (valute e titoli), che nell’ultimo periodo del secolo trascorso ha raggiunto il triplo della produzione mondiale, creando bolle speculative. Capitali hanno invaso regioni del mondo povero, quali il sud est asiatico e parte dell’America latina, facendo fiorire industrie e commerci. Tali capitali, tuttavia, essendo pronti a ripartire improvvisamente ai primi segni di allarme, hanno innescato crisi economiche devastanti. Interi continenti, come l’Africa, sono stati bypassati, ma ne hanno subito i contraccolpi sprofondando nella miseria più nera.

A gestire le crisi, sono stati gli USA, tramite il Fondo monetario internazionale, in nome dell’interesse dei mercati, che hanno in Wall Street la capitale. Così Wall Street ha moltiplicato la sua potenza e ricchezza, e, grazie alle caratteristiche dell’economia americana e alla sua vocazione alla competitività, ha esercitato un formidabile potere di attrazione dei capitali. L’egemonia americana si è trasformata in dominio, ed è cresciuta una nuova élite plutocratica tendenzialmente asociale, e si è affermato il darwinismo sociale più brutale.

La controffensiva capitalistica è stata resa possibile da un insieme di fattori: una nuova rivoluzione tecnologica realizzata con l’elettronica, l’informatica e la robotizzazione; lo scioglimento in fabbrica della falange del proletariato in un ventaglio di gruppi diversificati e mobili, che ha indebolito il potere contrattuale del sindacato; la liberazione dei movimenti dei capitali, che ha attribuito al capitale un immenso potere discrezionale e di ricatto rispetto alle scelte politiche dei governi; una controrivoluzione culturale che esalta la capacità di autoregolazione del mercato respingendo ogni interferenza dello Stato. La stessa grande impresa industriale è stata invasa dal mercato, che ha disarticolato la sua formidabile struttura gerarchica dando vita a una rete di centri di decisione dotati di autonomia e collegati da rapporti di convenienza più che di autorità. Il fulcro dell’impresa è così diventato quello finanziario. Il rappresentante supremo del capitalismo globalizzato non è più la borghesia nazionale, ma una plutocrazia cosmopolita, apolitica e ademocratica.

Come Smith e Ricardo temevano, con la liberazione dei movimenti di capitali, si è determinato lo sradicamento dell’economia dalle radici nazionali e popolari che la nutrono e stabilizzano. Risultato: una storia di terremoti valutari e monetari.

Ruffolo descrive le conseguenze di questo nuovo assetto economico: la società è diventata terribilmente disuguale con lo sgranamento dei suoi membri in una sorta di maratona sociale. In testa, un gruppo di ricchissimi che dispone di un reddito pari al 40% di quello mondiale (i grandi azionisti, i grandi manager, le stelle della ribalta e dello sport) a cui fanno seguito gruppi intermedi disposti in una lunga fila, per terminare con la massa ancora consistente degli operai e degli impiegati, e ultimi i lavoratori precari. A di fuori della società, si collocano i paria (disoccupati, emarginati e reietti). È una società, per molti versi assimilabile alle società di casta dell’antico oriente, che nulla ha a che vedere con la democrazia.

Come conseguenza della globalizzazione, lo Stato è risultato in gran parte spogliato della sua politica economica, e non è più in grado di sorvegliare le imprese. Fioriscono i paradisi fiscali e si rafforza il potere di ricatto delle grandi imprese di fronte alle pretese fiscali degli Stati. Il turbocapitalismo dilaga fuori dall’area economica tradizionale nelle sfere non economiche (politica, giustizia, sport, spettacolo) producendo corruzione, un solvente corrosivo della fiducia.

Ruffolo denuncia il divario crescente tra la potenza del capitalismo e il potere della democrazia. Se tale divario continuerà a crescere, la società si ingaggerà in una corsa verso un dove imprevedibile. Per evitare una tale prospettiva, c’è pertanto la necessità di costruire un progetto costituzionale del mondo che regoli la globalizzazione economica entro una globalizzazione politica.

A tal fine, c’è chi indica negli USA un modello sociale già bello e pronto che deve essere esteso a tutto il pianeta, essendo l’America l’unica superpotenza che, per dimensioni politiche, economiche e militari, sembra in grado di fronteggiare i problemi posti dalla globalizzazione. Ma il modello organizzativo di una nazione che, con il 5% della popolazione mondiale, consuma il 40% delle risorse planetarie non è estensibile perché richiederebbe un processo di crescita e di ridistribuzione colossale, ecologicamente e politicamente insostenibile. La macchina economica americana manifesta ancora una superiorità tecnica e una capacità organizzativa, tuttavia la sua capacità di soddisfare l’enorme fame di consumi espressa dalla nazione non deriva da un vantaggio produttivistico, ma dalla rendita finanziaria che le assicura la posizione di dominio del dollaro e le consente di indebitarsi sempre più verso il resto del mondo. Una situazione alla lunga non sostenibile.

C’è quindi la necessità di creare un organo internazionale cui affidare alcuni poteri strategici e di dare vita alla costituzione di grandi aree politiche sopranazionali in grado di riequilibrare la pericolosa asimmetria tra la superpotenza americana e il resto del mondo. Occorre definire un modello economico e sociale che dia vita ad un compromesso sostenibile tra capitalismo e democrazia.

A commento, rilevo che, ancorché in questi ultimi 20 anni il quadro possa in parte essere mutato per l’affacciarsi alla ribalta di grandi Paesi di recente sviluppo, rimane ancor più valida l’indicazione di Ruffolo: la possibile soluzione potrà venire solo da un mondo multipolare e non dal permanere dell’assetto unipolare. Purtroppo oggi quest’ultimo è in fase di consolidamento anche per la cecità e l’inerzia di una UE che pare dirigersi verso la paralisi e l’inconsistenza, essendo incapace di definire un proprio autonomo cammino.

Giuseppe Ladetto

Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione dei Popolari del Piemonte (CLICCA QUI)

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