Tutta la attenzione è concentrata sul Recovery Fund e sull’invio a Bruxelles del nostro Piano (Pnrr) di accesso al gigantesco intervento dell’Unione Europea per favorire la ripresa. Quasi in secondo piano è così finita la presentazione del Documento di economia e finanza (Def) pure presentato in questi giorni: una analisi che la dice lunga su quanto è successo, e non solo nel 2020, ai fondamentali del nostro Paese.

Non è tanto la caduta del PIL dell’ultimo anno (-8,9%) di dimensioni che non hanno precedenti. E nemmeno la perdita drammatica di quasi un milione di posti di lavoro, o l’impennata del debito pubblico. Questo lo si sapeva da quando è esplosa la crisi sanitaria che ha imposto chiusure di attività economiche e barriere ai trasporti. E’ piuttosto la conferma, davanti alla quale non si può essere insensibili, che l’Italia non cresce da almeno vent’anni e se adesso una ripresa dovesse veramente verificarsi ci vorranno almeno tre anni per tornare solo ai livelli del 2019, cioè prima della pandemia.

Perché l’Italia non cresce nonostante ci dicano che settori come l’industria meccanica, il turismo e l’agro-alimentare abbiano continuato ad espandere produzione, fatturato ed esportazioni? Non è difficile rispondere: questi settori rappresentano poco più di un quarto del PIL e il resto appartiene ad altri settori e soprattutto ai servizi, ai trasporti, al commercio, alla pubblica amministrazione. E’ qui che abbiamo perso terreno sino al punto di essere classificati tra gli ultimi in Europa, quando in passato eravamo tra i primi. Come per gli investimenti, in declino ovunque ma in particolare in Italia. Ed è qui che si misura la politica, cioè il funzionamento dello Stato e delle sue regole, dal lavoro ai servizi, dalle infrastrutture, alla scuola, dalla pubblica amministrazione alla giustizia.

Misurare il ruolo della politica in tutto ciò ci  porterebbe a una prima conclusione: il Paese non è più cresciuto proprio da quando siamo passati alla cosiddetta Seconda Repubblica: quella che avrebbe dovuto sostituire una intera classe dirigente inadeguata e corrotta secondo gli scalmanati della “casta”. Per non dire dell’avvento dei capi popolo, da Di Pietro a Grillo tanto per intenderci, con tutto quanto è stato spacciato intorno alla illusione che sarebbe bastato sbarazzarci dai partiti per liberare le risorse del Paese. Teniamo pure in conto che nel bel mezzo di questo tempo si è scatenata la pesante crisi finanziaria che ha scoperchiato le nefandezze degli “animal spirits” della finanza creativa. Anche gli altri hanno sofferto la crisi sistemica ma quasi tutti l’hanno superata raggiungendo e superando i risultati dei primi anni novanta. Tranne noi.

Da qui l’esigenza che la politica, quella vera, torni e che le forze politiche utilizzino la pausa offerta dal governo Draghi per uscire dalle convenienze a breve termine della caccia ai consensi, per riprendere tutte un rapporto più serio con la società. Ci sono ricchezze nascoste anche nella nostra realtà che vanno chiamate a contribuire a una ripresa delle ragioni, della passione e dei sentimenti della politica: nel mondo del lavoro, delle professioni, della scuola, del volontariato e diventa essenziale scoprirle e coinvolgerle.

Intanto, nel presentare il Documento di economia e finanza, come peraltro nel licenziare il Pnrr, sia Draghi che il ministro Franco hanno insistito nell’indicare solo nella crescita economica l’inderogabile condizione per restare agganciati all’Europa: aumentare il PIL ogni anno in misura adeguata e mantenere la crescita nel tempo.

E poi c’è il debito. Il documento non fa mistero nel prevedere che raggiungerà il 160% del PIL e che il ritorno alle regole europee entro due o tre anni ci imporrà di riprendere un graduale rientro. C’è solo da sperare che il cosiddetto “debito buono”, come è stato definito quello che si è reso necessario a seguito della pandemia, trovi per tutti scadenze lontane. Ma non basta, resta quello prima del 2020 per il quale i due governi Conte non hanno assunto nessuna iniziativa per contenerlo.

Per ora si tiene botta, ma il problema è sino a quando. I tassi di interesse tra non molto ricominceranno a salire e la stessa Banca Centrale Europea non potrà certo continuare in eterno ad acquistare i nostri titoli.

Dietro la incoraggiante occasione del Recovery Fund c’è quindi la realtà ben descritta dal Documento di economia e finanza, la cui presentazione sembra scivolata via come atto ordinario del Governo. Invece è un monito permanente.

Guido Puccio

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