Il disegno di legge Disposizioni esecutive della sentenza della Corte costituzionale del 22 novembre 2019, n. 242, altrimenti definibile come norme per il “suicido assistito”, è un passo avanti significativo per affrontare una questione delicatissima che incide “nella carne” le persone coinvolte ma che incide profondamente anche nella mentalità e nei costumi di un contesto sociale.

E’ un disegno di legge molto snello, 4 articoli,  che non pretende di costruire una cornice normativa per definire o descrivere tutti i passaggi operativi (come troppe volte fanno le leggi italiane), ma si limita a definire le modifiche necessarie nell’ordinamento esistente per ottemperare alle sollecitazioni delle sentenze della Corte Costituzionale e in coerenza con il principio costituzionale fondativo di tutti i diritti richiamato nell’art 1 del disegno di legge: Inviolabilità e indisponibilità del diritto alla vita.

Il primo comma dell’art 1 dell’articolato proposto è dirimente e molto chiaro e vale la pena richiamarlo alla lettera: “Il diritto alla vita è diritto fondamentale della persona in quanto presupposto di tutti i diritti riconosciuti dall’ordinamento. La Repubblica assicura la tutela della vita di ogni persona senza distinzioni in relazione all’età o alle condizioni di salute o ad ogni altra condizione personale e sociale.”

Sottolineo due passaggi chiave:

  • “diritto della persona” e non dell’individuo: e nell’attuale contesto socialmente e culturalmente “decadente e decomposto” è un richiamo forte e inequivocabile.
  • “presupposto di tutti i diritti riconosciuti dall’ordinamento”: anche in un ordinamento “laico” come deve essere un impianto legislativo di uno Stato occidentale contemporaneo, il Diritto alla Vita è la fonte di ogni diritto successivo e quindi è il diritto fondamentale che lo Stato deve tutelare.

Se non fossimo scioccamente “ideologici” e romanticamente inclini a dare enfasi a ciò che appare emotivamente bello nei vari momenti storici caricandolo di troppi significati che spesso non esistono, dietro questa affermazione si racchiude il fondamento di una civiltà: è racchiuso il “no” alla pena di morte, il “si” alla persona e al suo diritto a scegliere per sé – quando libera e consapevole –, il “no” alla guerra e ad ogni manifestazione di forza, ma anche il “sì” a difendere “tutti” dalle aggressioni proditorie di altri: la vita dei propri cittadini è diritto susseguente a questo principio e va difesa da aggressioni di “cittadini-persone di altri stati” almeno fino a quando l’ordinamento mondiale accetta come legittima la presenza di “stati sovrani”, ossia portatori di specifici diritti su persone abitanti entro confini geografici definiti.

E estensivamente, tutte le norme che devono tutelare gli ormai numerosissimi diritti individuali fioriti negli ultimi 60 anni nel mondo occidentale dovrebbero essere sottoposte a verifica previa per evitare che nel tutelare qualche sacrosanto diritto non inficino il diritto alla vita dell’altro.

Altro passaggio molto significativo è costituito dal comma seguente inerente il dovere della Repubblica a tutelare la vita di ogni persona, senza distinzione: la condizione di “persona” è ontologicamente previa a quella di cittadino. Sembra di sentire papa Francesco: dobbiamo difendere la vita di tutti, tutti, tutti. I migranti sono “persona”, giusto?

Con l’art 2 il disegno di legge comincia a modificare o integrare norme ordinamentali pre-esistenti per applicare la non punibilità di chi attua i propositi di morte di una persona, se la stessa è “maggiorenne” (e questo impedisce lo scandalo osceno della deriva eutanasica sui minori presente in altri stati occidentali)   in carico in un servizio di cure palliative, e ha formato questo suo convincimento in modo “libero, autonomo  e consapevole” e “pienamente capace di intendere e volere” (e questo impedisce manipolazioni sugli anziani poco o per nulla consapevoli e sui disabili che si trovano nelle condizioni di scarsa capacità ad esercitare consapevolmente il loro giudizio a causa delle patologie e delle relative disabilità mentali). Inoltre se presenti le condizioni prima illustrate,  la persona che intende farsi aiutare a porre fine alla sua vita deve trovarsi in una condizione di malattia irreversibile che determina sofferenze fisiche e psicologiche (non “o”), tenuta in vita da trattamenti sostitutivi delle condizioni vitali. La presenza di queste condizioni deve essere accertata da un Comitato nazionale di valutazione la cui composizione è disciplinata dal successivo art 4.

La previsione di un Comitato Nazionale di Valutazione   è quanto mai opportuna: giudicare non solo sul piano “oggettivo” la presenza delle condizioni predette, ma anche valutare la dimensione relazionale implicita comunque presente nella richiesta non richiede solo competenza specifica, ma anche la consapevolezza che quando si sarà chiamati a questo ruolo ogni altra incombenza viene meno e che null’altro se non la valutazione di questa angosciosa risposta deve essere messo al centro.

Opportuno poi che questo comitato non sia chiamato “etico”, non perché non faccia una valutazione con profonde implicazioni anche di tal fatta, ma perché il giudizio deve essere profondamente autentico e libero, privo di “pre-giudizi”, se non quello unico di salvaguardare e tutelare la inviolabilità e la indisponibilità della vita umana.

E quelli esistenti, istituiti nel SSN per la ricerca sostanzialmente, sono in tutt’altre faccende affaccendati….

Il parere così rilasciato, ancorché vincolante in merito alla accettazione delle volontà espresse dalla persona che richiede di porre fine alla sua vita, sarà comunque valutato dalla autorità giudiziaria in merito alla non punibilità di chi ha favorito la morte del richiedente.

Nella legge è stato anche inserito un articolo che impegna, anche risorse finanziarie, affinché in tutte le Regioni si dia dato un impulso decisivo a rendere disponibili gratuitamente i servizi delle “Cure Palliative” ancora non sufficientemente presenti in molte, troppe regioni. Dal mettere risorse (si spera adeguate) allo sviluppare servizi, tempo ne intercorre: e vuol dire assumere persone preparate, non solo sul piano umano ma anche tecnico.

Era una scelta che doveva essere fatta qualche decennio fa: non ci si è pensato.

Troppo forti le “lobbies” che spingono sulle “prestazioni”, sulle terapie che guariscono, sui farmaci

Ad essere sinceri, pur comprendendo che il problema delle liste d’attesa è molto importante e riguarda milioni di cittadini (che votano), è umanamente molto più urgente non abbandonare nel dolore, nella disperazione e nella solitudine chi si avvicina al termine della propria esistenza e i relativi famigliari. È questione di civiltà e di umana compassione.

Ciascuna persona può liberamente decidere di non volere essere assistito nel suo percorso di fine vita da un servizio di cure palliative: né il percorso di fine vita deve essere inteso come ultimo “accanimento terapeutico”.

Semmai andrebbe fatta una profonda riflessione culturale sia in ambito sociale che in ambito medico circa il senso del limite delle cure in certe condizioni: limite che non deve essere imposto da algoritmi decisionali (come temo purtroppo sciaguratamente accadrà), né da pressioni frettolose involontarie sul “tentare” l’ultima e magari “ennesima” cura, ma andrebbe discusso in un percorso di dolorosa e attenta relazione di ascolto e di cura dal personale medico e sanitario con la persona malata e i suoi famigliari

Proprio l’imminente sbarco della Intelligenza artificiale che sancirà se si ha diritto no a certe esami, o visite o cure in base a sofisticati algoritmi probabilistici di calcolo, va rivendicato il diritto/dovere di una relazione di cura sempre prevalente nel decidere, dove anche stringere la mano dell’altro, ascoltare le sue lacrime e condividere il dolore di non poter far nulla per allontanare quel terribile momento della morte deve poter essere la priorità di chi esercita le professioni sanitarie e mediche in particolare: anche davanti ad ogni “efficientamento” organizzativo e gestionale e economico. Vogliamo provare a invertire la tendenza, magari proprio nel nome della difesa del diritto alla Vita? Proviamoci

Per non mettere sempre l’economia al primo posto, come richiamato di recente anche dal Presidente della Corte dei Conti, bisogna avere il coraggio di fare delle scelte e farle mettendo al primo posto i diritti dei più deboli: e chi è più debole e indifeso di chi è prossimo alla sua morte?

Una chiosa di dubbio e di dissenso: il voler rimarcare che il procurare la morte al termine del complesso e percorso come sopradescritto, non debba essere un costo per il SSN mi sembra un passaggio forse eccessivo: può avere una sua logica (il SSN è un servizio per la vita e non per la morte), ma se tutto sarà stato fatto come previsto da questo disegno di legge, la umana compassione e la misericordia (anche se quest’ultima non è categoria primariamente laica) devono poter prevalere.

E se tutto sarà fatto secondo questo disegno di legge, i numeri saranno così poco rilevanti che questa “spesa” non dovrebbe preoccupare (e quindi non dovrebbe indurre nessun “mercato italiano” della “buona morte”)

In conclusione, va dato atto che l’impianto legislativo proposto dal governo dell’onorevole Meloni, ha una sua oggettiva coerenza e va lodato il coraggio di questa scelta che ha inteso di non volersi piegare al “mainstream” imperante nel mondo occidentale, sapientemente orchestrato e anche copiosamente finanziato, che ha declassato anche la Vita a diritto soggiacente il libero arbitrio, solleticando emotivamente il “superomismo” disperato dell’occidente decadente: si può forse discutere su cosa sia il “diritto naturale”, ma non si può negare che il “diritto alla vita” è indisponibile in ogni modo all’individuo stesso che del resto non ha fatto proprio nulla per averlo: si è nati  e si vive  senza che nessuno ce lo abbia chiesto.

“It happened” direbbero gli inglesi: e da lì in poi, tutto è possibile tranne che disporre della propria e altrui vita.

Dobbiamo rifuggire dalla falsa idea che questo “mainstream” sia il pensiero prevalente della popolazione: è un consenso che è stato costruito nel tempo da chi sa manipolare il comune sentire e lo orienta senza che ce ne se accorga.

Fare “politica nuova”, vuol dire andare al fondamento delle questioni e delle proposte di legge, a prescindere da chi le propone, senza timore, con piena libertà interiore e di coscienza, formatasi, almeno per chi è cristiano, in un continuo riferirsi a quei pochi principi veritativi che ci rimangono e in un sereno confronto relazionale: in fondo sono principi che valgono per tutti gli uomini veramente e interiormente liberi (speriamo ce ne siano ancora).

Massimo Molteni

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