Il governo che il prof. Mario Draghi si accinge a disegnare, e  vivamente speriamo ci riesca,  è un esecutivo “di scopo”. Per le condizioni determinate dalla situazione del Paese e dell’oggettiva incapacità di tutte le attuali forze politiche ad affrontarle, ha tutte le caratteristiche per divenire “di snodo”, di passaggio da una stagione all’altra della democrazia italiana.

Sappiamo, e lui stesso lo ha confermato, che egli deve riuscire soprattutto ad affrontare talune  questioni cruciali. Tra le prime, quelle del più intelligente modo di utilizzare le misure straordinarie previste dall’Europa per debellare la pandemia e risollevare le condizioni economiche conseguenti. Mario Draghi lo deve fare contando su quegli stessi partiti che sono divisi su tutto. Fortunatamente, salvo il pregiudiziale “no” di Fratelli d’Italia, intenzionati a fare oggi quel che fece la Lega con il Governo Monti, ci si rende conto che tutti dobbiamo ritrovare il senso di quanto  è di comune interesse tutelare, pur permanendo contrasti strutturali. La casa brucia ed è davvero puerile continuare a discutere su  quale stanza tocchi a ciascuno. E’ necessario, almeno in questa fase, mettere tutti mani ai secchi e alle pompe.

Bene, dunque, farà Draghi a favorire questo atteggiamento e a porre in campo ogni cosa necessaria per non perdere  gli appuntamenti impellenti del prossimo aprile con il Recovery Fund, per impostare la pavimentazione affinché il cammino lungo quella strada sia produttivo per il Paese e il piano vaccinale si sviluppi celermente in modo da  portarci  il più velocemente possibile al riparo dal Coronavirus.

Ciò detto, restano  altre questioni. Fondamentali per il presente ed il futuro dell’Italia su cui questi stessi partiti che si accingono ad assicurare la maggioranza necessaria in Parlamento sono, invece, totalmente in disaccordo. Il Governo Conte è caduto proprio mentre era in procinto di portare in Parlamento il Piano Giustizia. Probabilmente non vi avrebbe trovato i voti sufficienti.

La Giustizia non è proprio uno di quei temi che possano essere ulteriormente rinviati. Già prima che esplodesse il caso Palamara, la cosa era evidente. Oggi, ancora di più. Ma tutti coloro che si avviano a votare sì al Governo Draghi possono trovarsi d’accordo? Molto probabilmente no.

Vi è poi la questione immigrazione quale estrema fonte di divisione. E ancora, ma solo per indicarne alcune altre, la Scuola, la fiscalità, a proposito della quale occorre dire che non basta un’ulteriore sospensione dell’invio delle cartelle esattoriali,  il nuovo modello di sviluppo, che oggi si preferisce chiamare “transizione ecologica”,  e, soprattutto,  la legge elettorale.

Se qualcuno vuole dare corso ad un “calderone” di temi e questioni vuol dire che è già intenzionato a segnare una rapida fine del Governo Draghi non appena se ne dovessero determinare le condizioni. Un lusso che non ci possiamo permettere.

E’ dunque inevitabile che il vero accordo da raggiungere tra le forze parlamentari che continuano a lodare Draghi debba essere quello di mettere al riparo il nuovo esecutivo dalle loro divisive turbolenze. Devono essere individuati i due “circuiti”, inevitabilmente integrati, ma distinti l’uno dall’altro, su cui potrebbero camminare l’attività del Governo e lo sviluppo della dialettica e lo scontro parlamentare tra forze politiche che restano antitetiche l’una all’altra.

Un modo in cui, tra l’altro, finalmente si riuscirebbe a restituire al Parlamento un ruolo e un senso in questa Repubblica che, da parlamentare, è divenuta sempre più indefinita a causa del progressivo svuotamento della funzione delle Camere provocata da governi andati avanti con decreti legge, dpcm e forzoso utilizzo di collanti di traballanti maggioranza che si chiamano voti di fiducia. Si tornerebbe alla giusta identificazione di ciò che è materia su cui deve intervenire l’Esecutivo e quanto, invece, è di precipua competenza, in taluni casi, persino esclusiva, del Parlamento, in generale, e dei parlamentari, in particolare, giacché sono loro, presi pure singolarmente, a rappresentare la Nazione e ad esercitare le proprie funzioni “senza vincolo di mandato”, come ci ricorda lapidariamente l’art.67 della nostra Costituzione.

Questo spirito, che tra l’altro terrebbe conto della crisi profonda in cui è finito l’attuale sistema dei partiti, significherebbe tornare alla “passione” per la Politica, alla discussione libera perché al riparo dal rischio che un aperto confronto possa provocare la caduta del Governo che si sostiene o, al contrario,  o da quello che porta l’opposizione a schierarsi pregiudizialmente contro, nel solo nel tentativo di mettere in crisi la maggioranza formata da altri.

Il Paese non può fermarsi, il nuovo Governo neppure. I partiti, tutti i partiti, accettino la sfida che ci pone il sistema democratico e siano pronti a partecipare a maggioranze che si potrebbero definire “variabili” su quei temi e quelle questioni su cui il Governo non può o non deve intervenire perché propri della libera dialettica da sviluppare in Parlamento. Così facendo, si vedrebbe se avviando un vero confronto democratico questo Paese fosse ancora in grado di dire qualcosa dopo la grande ubriacatura di “partitismo” cui abbiamo assistito negli ultimi decenni, dove per questo termine è da intendere il continuo schierarsi aprioristicamente “contro” su ogni questione, indipendentemente dal valore delle proposte avanzate dagli avversari politici.

All’interno della possibilità che nascano una nuova Politica e un nuovo modo di farla, vi è una questione di diretto nostro interesse che è davvero da approfondire. E’ quella relativa alla dimensione su cui dovrebbero collocarsi tutti quegli amici impegnati in politica perché ispirati cristianamente e animati dalla voglia di dedicarsi al Bene comune. Incontriamoci sui problemi e non ci facciamo più irretire ed evirare dalla più facile e opportunistica scelta basata  sull’ipotesi  di partecipare a schieramenti che altri hanno predisposto e costituito, pure a nostre spese.

Giancarlo Infante

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