Finalmente una delle sorelle Meloni, stavolta Arianna non Giorgia, si è espressa con chiarezza su aspetti centrali delle finalità del suo partito “Fratelli d’ Italia”. Finalmente parole non finalizzate alla individuazione dei molteplici “nemici”, alla denuncia delle “toghe rosse” o dei “complotti” che minerebbero continuamente l’attività di governo. Pochissime parole, ma chiare. Parole che valgono più di mille interviste.
Arianna Meloni ha affermato nel corso del Convegno di FdI di Roma: “ Abbiamo fatto una traversata nel deserto. E’ stato un viaggio lunghissimo , ma adesso siamo il grande partito della nazione” ( Arianna Meloni: la premier come Frodo, ne Il Tirreno 2 febbraio 2025, p. 6).
Una affermazione forte, anche se estremamente sintetica, messa un po’ in sordina dal riferimento distruttivo a Frodo e al Signore degli Anelli, cioè agli aspetti più mediatici e folcloristici del teatrino politico.
Un “partito della nazione” dunque e per giunta neppure piccolo, bensì un “grande” partito della nazione. Una espressione non proprio frequente nel dibattito politico attuale ed anche un po’ anomala. C’è una contraddizione implicita nel concetto di “partito della nazione”. Può una parte politica ( quindi un partito) coincidere con una totalità, quale è la nazione, che, almeno nella accezione costituzionale, è una entità collettiva ancora più estesa di quella di popolo, riguardante i soggetti viventi, passati e futuri di un determinato territorio, portatori anche di idee e indirizzi culturali e politici divergenti tra loro? E come può rapportarsi il “partito della nazione” ( ce ne dovrebbe essere solo uno) con gli altri “partiti” che non usano la medesima denominazione? Saranno essi “partiti” estranei alla nazione, indifferenti ad essa o addirittura antinazionali, partiti con cui escludere il confronto? A parte questa “stranezza” non secondaria, l’espressione richiama però almeno un importante precedente storico della nostra storia costituzionale, che sarebbe errato trascurare. Se ci è consentito confrontare cose enormi con cose tanto piccole.
“Noi non siamo un governo di partito….Noi siamo gli uomini della nazione”. E’ la solenne affermazione di Francesco Crispi, nel Discorso alla Camera 20 maggio 1887, tenuto in qualità di ministro dell’ Interno del gabinetto Depretis, una affermazione pronunciata affrontando il tema della unità che, in nome dell’ efficienza, doveva legare tutte le forze politiche per attuare l’ampio piano di disegni di legge allora all’esame del Parlamento ( riforma comunale e provinciale, pubblica sicurezza, manicomi, codice penale, opere pie, statuto degli impiegati, sistema penitenziario, emigrazione). Una affermazione che si potrebbe integrare con altre parole da lui pronunciate in un successivo intervento parlamentare del 20 dicembre 1893 : Noi non apparteniamo ad un settore piuttosto che ad un altro del Parlamento; noi apparteniamo al gran partito unitario , che ha per sola mira l’ italia, a servire la quale ci siamo dedicati con animo sereno, col dovere del sacrificio!
Francesco Crispi, uomo proveniente dalle file garibaldine del Risorgimento ed uomo che sentiva fortemente l’esigenza di rafforzare l’ancora fragile unità nazionale, esprimeva in quel discorso una propria idea del funzionamento del sistema parlamentare. Crispi considerava naturale che l’interpretazione della volontà popolare, la “rappresentanza” di essa – quella che oggi per il testo costituzionale, come per lo Statuto albertino, appartiene collettivamente ai parlamentari- dovesse invece esser riservata al leader del governo, che, attraverso l’appoggio incondizionato dei deputati, appare come espressione genuina della volontà della “nazione”. Una “volontà” che non poteva che essere omogenea e concorde, scevra dalle rivalità create dalla pluralità delle opinioni.
Come ha scritto uno storico, Francesco Crispi “ si sentiva investito del compito di guida dell’intera nazione al di là e, se necessario, oltre la mediazione degli istituti rappresentativi , ai quali riconosceva solo il compito di esprimere al suo governo la fiducia necessaria per la legittimazione politica e per la gestione del potere in una visione chiaramente accentratrice delle funzioni statali” ( Carlo Ghisalberti Storia costituzionale d’ Italia 1848- 1948 Laterza Bari Roma 1989 ).
Era questa l’idea non di un esecutivo forte e stabile, che è una legittima esigenza di ogni vera democrazia liberale, ma quella della preminenza dell’esecutivo sugli altri poteri dello Stato e del Parlamento visto come organo di pura legittimazione dell’operato del governo, ma non di indirizzo politico della legislazione. Ed, in effetti, nel periodo dei governi crispini vi furono lunghe chiusure delle Camere secondo la logica del governo a Parlamento chiuso : tra il 23 luglio 1894 e il 10 giugno 1895 i due rami del parlamento lavorarono solo per undici giorni.
Come è sotto osservato la pratica di Crispi implicava, in effetti, un rovesciamento della pratica del liberalismo classico ottocentesco. “ Allargare il margine legale della sua autorità, facendosi autorizzare dal Parlamento a determinare per decreto i poteri del presidente del Consiglio o facendosi autorizzare a imporre tributi per decreto, non significava risolvere i problemi del regime, significava solo accentuare quei caratteri arbitrari che ne avevano costituito sempre la profonda debolezza. Cavour aveva cercato nella maggioranza parlamentare la forza per bloccare l’influenza regia. Crispi fu ridotto a cercare nell’appoggio dinastico la forza per dominare il Parlamento, per mostrargli aperto disprezzo, per rovesciare quel principio del governo parlamentare di cui conosciamo la inconsistenza e l’irrealtà nella vita italiana, ma che comunque aveva costituito la base storica dell’esperienza liberale, e che era imprudente rinnegare senza saperlo o poterlo superare” ( Giuseppe Maranini, Storia del potere in Italia, Vallecchi, Firenze, 1968, p. 202).
Quello crispino fu dunque un modello di premierato di fatto, ma non di diritto. I tentativi di introdurre un premier come responsabile dell’intero Gabinetto fatti da Ricasoli ( 1867) poi da Cairoli e Depretis non furono accettati dalla Corona, ma Crispi riuscì ad affermare la superiorità di fatto del presidente del Consiglio sui ministri per via amministrativa ( legge 12 febbraio 1888) stabilendo che il numero dei ministeri doveva esser fissato dal presidente del Consiglio e sancendo la facoltà dell’esecutivo di organizzare i propri uffici. Il problema della leadership, cioè della organicità dell’indirizzo di governo, si risolveva attraverso la sempre più profonda identificazione del potere esecutivo con l’apparato amministrativo. Il disegno perseguito era quello dell’autoorganizzazione del Ministero non quello del suo rafforzamento parlamentare.
Il premierato crispino può essere un modello anche per l’ Italia del XXI secolo? Va detto allora che obiettivo dei governi crispini e della complessa ed articolata opera di riforma fu il rafforzamento del potere esecutivo nonché l’accentramento autoritario delle strutture statuali, che partiva dall’uso politico della figura del prefetto. Un accentramento che finiva anche per subordinare gli apparati amministrativi al potere politico, rafforzando l’insindacabilità del merito dell’attività amministrativa e la prevalenza quasi automatica dell’interesse della pubblica amministrazione rispetto all’interesse del privato e quindi rafforzando la sudditanza del cittadino rispetto allo Stato. La “doppia giurisdizione” introdotta nel 1889- con la nuova IV sezione del Consiglio di stato- per risolvere il contenzioso amministrativo tra cittadino e Stato avrebbe rappresentato a lungo un privilegio della pubblica amministrazione. Non avrebbe certo rafforzando la democrazia liberale. Non dimentichiamo che in Italia, a differenza di ciò che succedeva negli ordinamenti europei, la pubblica amministrazione non è mai stata tenuta a risarcire i danni causati dall’esercizio illegittimo della propria attività fino alla storica sentenza della Cassazione n. 500 del 1999. In sintesi estrema si può dire che “sostanza e fine di tutta la opera crispina era il rafforzamento del potere esecutivo per riaffermarne la supremazia su ogni altro potere politico e civile” ( Ernesto Ragionieri Storia d’ Italia vol. 4 Einaudi 1976, p. 1761)
Certo una rozza e banale analogia storica col premierato che oggi si propone sarebbe una operazione superficiale e strumentale se non indicassimo le differenze evidenti di intendimenti e di contesti.
Veniamo alle differenze evidenti. Crispi non si sarebbe mai permesso di parlare di “partito della nazione”, visto che anzi egli contrappone proprio partito e nazione. L’opera di Crispi è poi l’opera di un grande e intelligente riformatore, che si vale di grandi competenze per completare la costruzione istituzionale di uno Stato, non semplicemente per conquistare consensi elettorali. Alcune delle sue riforme hanno valicato decenni di storia ( pensiamo alla riforma delle Opere Pie o al Codice Zanardelli).
Fatta questa premesse, ci sono invece elementi che sembrano potersi ripetere. Il fatto è che la preminenza dell’esecutivo sugli altri poteri apriva all’epoca pericoli e rischi straordinari consentendo ad esempio una “politica imperiale” ( nelle forme di un “imperialismo straccione” con cui si caratterizzò il colonialismo italiano) e bellicista che aggravava tutti i problemi di bilancio , in una fase di crisi economica, rendeva superfluo il perseguimento di una equità tributaria, aumentando gli squilibri che infiammavano il conflitto sociale che poi il centralismo autoritario contribuiva ad aggravare. Oggi una preminenza dell’esecutivo sugli altri poteri dello Stato non produrrebbe certo effetti molto diversi e non è certo richiesta dalla necessità di consolidare le istituzioni nazionali. Questa preminenza dell’ esecutivo è oggi prima di tutto, una preoccupazione soprattutto delle grandi banche internazionali che vogliono avere mano libera nei rapporti con la finanza pubblica, senza gli ostacoli che solo un Parlamento può costruire. Un noto documento della J.P. Morgan Bank del 2013, già esprimeva la preoccupazione per i sistemi politici europei periferici, caratterizzati a dire dei suoi esperti da “ esecutivi deboli, Stati centrali deboli rispetto alle regioni, protezione costituzionale dei diritti del lavoro, sistemi di consenso che favoriscono il clientelismo politico e il diritto di protesta se si introducono mutamenti contrari allo statu quo” (JP Morgan Bank The euro area adjustement. About half way there 28 May 2013).
Una introduzione del premierato, oggi certamente sarebbe utile, ma solo per questi poteri che mal sopportano i limiti costituzionali e giurisdizionali. Probabilmente non risolverebbe nel medio periodo neppure i problemi della finanza pubblica, oltre a quelli dei crescenti disastri sociali. In fin dei conti l’ultimo governo crispino finì nel tracollo finanziario, in quello della sua “politica imperiale”, nel disastro sociale e democratico, nel ricorso allo stato d’assedio per risolvere i conflitti sociali. Per uscire dal vicolo cieco allora ci volle un governo ch, almeno in parte, ripristinasse il funzionamento delle istituzione parlamentare e riattivasse le libertà civili, come quello giolittiano. Ma l’indebolimento della istituzione parlamentare avrebbe causato danni irreparabili, poi aggravati dalla grande guerra ed esplosi nella crisi del dopoguerra, che aprì la strada alla dittatura fascista, che ebbe così buon gioco nel considerare Crispi come un proprio precursore.
Ed è a questo progetto di premierato e quindi alla sostanza politica delle scelte che dovrebbe indirizzarsi la riflessione critica, lasciando perdere gli attacchi a ciò che il governo non fa o le polemiche sulle “guerre sceneggiate” ( dei giudici o dei migranti) che servono solo alla distrazione di massa.
Umberto Baldocchi