Sintesi dell’intervento di Vera Negri Zamagni al seminario di Insieme “Un’economia che snobba la persona umana: che fare?”

 L’economia in cui viviamo “snobba” la persona umana sul lavoro, perché la considera una “risorsa” da sfruttare ai più bassi costi per produrre profitti per gli azionisti e remunerazioni stellari per gli alti livelli della dirigenza. Di ciò hanno parlato i colleghi. In questo intervento mi sono riproposta di mostrare come questa economia snobbi la persona umana non solo in quanto lavoratore, ma anche in quanto consumatore. Mentre il lavoro è sempre esistito ed è sempre stato sfruttato, nelle nostre società “affluenti” la persona è diventata ad un tempo lavoratore e consumatore. La possibilità di esercitare un potere d’acquisto è stata a lungo riservata esclusivamente alle numericamente ristrette classi abbienti, perché tutti gli altri sopravvivevano a livello di sussistenza. Chi non ricorda il famoso film “L’albero degli zoccoli”, dove persino possedere un paio di zoccoli era un lusso negato? Oggi invece la persona come consumatore è diventata dominante.

Ora, per sfruttare il consumatore occorre continuamente diversificare i consumi, incentivando le persone all’acquisto di prodotti e servizi sempre nuovi per evitare di giungere alla “saturazione” del mercato. Ma come fare ad ottenere prodotti e servizi sempre nuovi continuando ad utilizzare processi produttivi industriali? Ricorrendo all’artificiale. L’artificiale è entrato nelle nostre vite in maniera massiccia, perché ha i suoi versanti positivi, Quando Giulio Natta e il suo collega tedesco Karl Ziegler hanno inventato la plastica, un materiale artificiale che ha sostituito tanti materiali naturali, di sicuro non si sono preoccupati del fatto che la plastica non è biodegradabile e quindi produce montagne di rifiuti indistruttibili. Ma questo non è che uno degli esempi dei tanti prodotti artificiali a cui ci siamo abituati, molti dei quali altamente inquinanti perché bruciano benzina, gasolio, carbone, senza che si fosse fatto attenzione ai versanti negativi di tali prodotti.

Dalla produzione di beni di consumo artificiali si è passati alla sostituzione del lavoro con “lavoratori artificiali”, i robot, che hanno portato benefici alleviando la fatica dei lavori pesanti e nocivi per la salute umana, ma stanno ora progressivamente sostituendo anche lavoro “normale”, creando una corsa continua ad aggiornare i lavoratori perché interagiscano con sempre nuove macchine e nuovi programmi elettronici. Ora, se i benefici di questa sostituzione dei lavoratori venissero equamente distribuiti, si avvererebbe la profezia di Keynes che già nel 1931 aveva scritto che le macchine avrebbero portato ad una liberazione di tempo del lavoratore, da dedicare ad attività più appaganti. Ma se i profitti verranno distribuiti solo ai proprietari di robot, i lavoratori rimasti dovranno sempre spendere la loro vita al lavoro per i medesimi tempi di prima, mentre quelli spiazzati si dovranno accontentare di qualche “reddito di cittadinanza”.

La tendenza a questa “sostituzione” del lavoratore sta arrivando ai suoi estremi con la cosiddetta “Intelligenza Artificiale (IA)”, di cui non sono un’esperta, ma che cito qui per far riflettere sul suo significato: saranno capaci gli algoritmi di sostituire anche la progettazione umana e magari pure la coscienza? Ovvero di sostituire la persona umana, non solo il lavoratore? E ciò sempre a beneficio dei pochi possessori delle società di IA? Uno scenario a dir poco apocalittico.

Ma c’è chi ci sta proponendo anche un’altra versione di questa “vita artificiale” attraverso il metaverso: ci si può costruire un’identità artificiale, un avatar che ci piace di più del nostro io “naturale”, e lanciarsi sui media, con effetti che talora portano al suicidio. Ma si può anche restare con la propria identità andando nel metaverso ad acquistare proprietà artificiali, oggetti d’arte artificiali, interazioni artificiali, costruendosi una seconda vita che ci “ruba” la vita vera, perché ci fa occupare del tempo fuori da essa (il tempo, infatti, è oggi la risorsa più scarsa per le persone dei paesi affluenti, perché così tanti sono i possibili modi per impiegarlo dal punto di vista quantitativo che il tempo non basta mai). Fino ad arrivare a chi progetta di vivere in mondi “artificiali” fuori dalla terra (Luna, Marte).

Infine, la persona umana stessa viene “artificializzata” non solo con parti di corpo artificiali, che spesso possono essere di aiuto, ma anche alterando il DNA, inserendo sensori, facendo trattamenti in camere bariche, trattamenti estetici, talora utili per correggere inestetismi vari, ma spesso devastanti, intervenendo sul sistema riproduttivo per facilitare la famiglia “artificiale”.

Non ho certamente esaurito tutte le potenzialità di questo “artificiale” che ci ingombra la vita, ma credo di avere detto l’essenziale per arrivare a un paio di conclusioni. La prima è che l’entusiasmo per l’artificiale non saggiamente amministrato distoglie l’attenzione dalla conservazione del naturale, che tende a rivoltarsi contro l’umano che sta tentando di distruggerlo. Abbiamo sotto gli occhi il forte peggioramento dell’ambiente e l’infelicità crescente delle persone, che perdono la loro identità e il loro scopo di vita. Se è vero, come si afferma, che la felicità sta nelle relazioni tra persona e persona l’artificiale diminuisce e distorce fortemente queste relazioni, proponendo l’interazione fra la persona umana e la macchina, fino a produrre hikikomori, ossia persone che si relazionano solo con la macchina, di cui diventano schiavi. La seconda conclusione è che stiamo correndo verso una doppia schiavitù, perché, oltre a diventare schiavi delle macchine, diventeremo schiavi anche di chi possiede le macchine, se non si provvede a limitare profondamente l’attuale legislazione che rende ultraricchi i detentori del nuovo capitale che produce l’artificiale. E’ scritto nella Bibbia che ci sarà la fine del mondo, e le raffigurazioni che ne vengono date insistono sul disfacimento della natura. Ma c’è un altro disfacimento che raramente viene rilevato: quello dell’uomo stesso.

Vera Negri Zamagni

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