Si torna a discutere di primarie, immaginando che siano la modalità più aperta e democratica, più partecipata, più coinvolgente, più probante per selezionare il leader. Si tratti di un partito o piuttosto di una coalizione.
Pare che la destra, nella nuova Legge elettorale, sia propensa ad inserire il nome del premier proposto in testa alle liste, sperando di provocare un conflitto insanabile a sinistra. Altri – sempre a destra – lo sconsiglierebbero per non offrire agli avversari la chance di una vasta mobilitazione del loro elettorato, attraverso le primarie. Ma è davvero così? E’ sempre così? E’ dovunque così, in ogni sistema politico? Di qualunque primaria si tratti?
Tutte le elezioni primarie hanno sempre e comunque una particolarità che le differenzia dalle consultazioni prescritte dal nostro Ordinamento istituzionale: avvengono senza che sia definito con la necessaria puntualità il corpo elettorale. L’insieme degli aventi diritto è indefinito ed aleatorio. Non si limita, in particolare, agli iscritti registrati da una determinata forza. Basta una piccola contribuzione perché chiunque possa accedere al voto.
Non è una cosa da poco. Si tratta di una condizione che apparentemente accresce, in realtà limita l’ effettiva rappresentatività del voto, che finisce per assomigliare troppo, più che altro, ad un sondaggio. In altri termini, una indicazione che nasce dalla consultazione di un più o meno vasto concerto di cittadini di cui, al di là del dato numerico assoluto, è difficile valutare il peso specifico, cioè la maggiore o minore rispondenza quantitativa del voto espresso alla presumibile base elettorale.
In teoria, tutti possono partecipare a tutte le primarie, siano di questo partito o di tutt’altro. Del proprio partito o di quello avversario. Si tratta forse di una ipotesi estrema che prevede un’operazione preordinata, non facile da organizzare, con ogni probabilità non rilevante in ordine al risultato finale, ma pure da non escludere a priori, tanto che in alcune primarie si è, perlomeno, affacciato il dubbio che questo possa essere accaduto.
Né va dimenticato come, in talune occasioni – è successo anche al PD – l’elezione primaria non sia l’espressone della vitalità di un partito e della sua capacità attrattiva che si dilata al di là dei suoi confini. Ma, piuttosto, la via di fuga da un “impasse” irrisolvibile secondo le normali vie della dialettica interna, cosicché non si può supplire altrimenti se non ricorrendo ad una figura che, addirittura esterna al partito, consenta di non esasperare i toni, permettendo a ciascuna componente di dichiarare che la partita è finita “pari e patta”, senza che scorra il sangue di vinti e di vincitori. Ma soprattutto – si tratti di una coalizione o di un partito – pur senza negarne in assoluto l’opportunità, le elezioni primarie, soprattutto ove se ne abusi, sono, ad un tempo, causa ed effetto di una mutazione della stessa sostanza di una forza, così come la conosciamo nella nostra tradizione civile e democratica. Inclina, infatti, decisamente verso la forma del “comitato elettorale”, ben lontana da una concezione del partito come declinazione politica di una cultura e di una visione complessiva del mondo.
Una forza non può essere, in un certo senso, “colonizzata” da una linea politica aleatoria, in qualche modo estrinseca alla sua effettiva dialettica interna. Bensì, deve approdare ad una leadership, in un certo senso, “tracciabile”, cioè espressione di un pensiero e di un indirizzo maturato nel lungo termine di una consuetudine di amicizia, di riflessione comune e di impegno solidale.
Domenico Galbiati