Quando nel 2016 il popolo britannico votò per uscire dall’Unione Europea, molti analisti interpretarono la Brexit come il segnale più tangibile del ritorno del sovranismo e del declino dell’integrazione europea. Per Londra, l’uscita significava – nelle intenzioni dei promotori – riacquistare pieno controllo su confini, leggi e commercio. Tuttavia, a quasi un decennio di distanza, il bilancio appare ben più amaro.

L’economia britannica ha subito contraccolpi evidenti, con un rallentamento degli investimenti esteri, difficoltà nelle catene di approvvigionamento e un calo dell’influenza diplomatica globale. Anche l’Unione, privata di una delle sue principali potenze militari, economiche e diplomatiche, ha perso peso sul piano strategico.

La frattura non ha rafforzato nessuno. E se sul piano formale la Brexit ha segnato una separazione netta, nella sostanza i legami tra Londra e Bruxelles non si sono mai del tutto recisi. Il dialogo commerciale, la cooperazione in ambito giudiziario e la lotta all’immigrazione illegale non si sono interrotti;  anzi, si sono intensificati, soprattutto di fronte alle minacce comuni.

Con Berlino e Parigi, una nuova locomotiva europea

Nel 2022, con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, lo scenario internazionale è entrato in una nuova fase storica. Non si tratta solo di una guerra alle porte dell’Europa, ma di una vera e propria ridefinizione degli equilibri mondiali.

Le ambizioni espansionistiche di Putin, l’uso dell’energia come arma geopolitica, la guerra ibrida e la minaccia nucleare hanno fatto riscoprire ai Paesi europei – e al Regno Unito – l’importanza della difesa comune e della cooperazione strategica. Parallelamente, anche il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e le sue dichiarazioni aggressive verso la NATO e verso l’Unione Europea pongono nuove urgenze.

L’America di Trump si presenta meno disposta a garantire il tradizionale ombrello atlantico, con una politica commerciale protezionista e isolazionista.

In un simile contesto, l’Europa non può più permettersi divisioni interne o ambiguità. E Londra sembra esserne consapevole: la collaborazione militare con Francia e Germania si è intensificata, l’adesione al Patto di difesa europeo resta una prospettiva concreta, e su dossier strategici come la lotta al terrorismo o il contrasto alle reti migratorie illegali, il Regno Unito si comporta sempre più come un alleato naturale dell’UE.

Londra torna a pensare europeo

Se il clima che ha originato la Brexit era segnato da crisi economica, diffidenza verso Bruxelles e paura dell’immigrazione incontrollata, oggi il contesto è radicalmente cambiato. Le priorità non sono più solo economiche, ma esistenziali. Si chiamano: sicurezza, difesa, energia, autonomia strategica.

Di fronte a queste sfide, si fa strada una nuova consapevolezza: l’Europa, per contare nel mondo multipolare di oggi, ha bisogno di rafforzarsi e di marciare unita. Non solo per difendersi, ma per esistere. E il Regno Unito, per storia, cultura, peso geopolitico e militare, non può restare alla finestra. Una sua piena reintegrazione nei meccanismi decisionali europei è ancora lontana e improbabile nel breve termine, ma la realtà quotidiana mostra già un ritorno progressivo nei ranghi di Bruxelles e Strasburgo.

Londra potrebbe tornare a essere non solo il Watchdog, il  “cane da guardia” della sicurezza del continente, ma, insieme a Parigi e Berlino anche la locomotiva della nuova Europa, capace di tenere testa alla Russia, alla Cina e, come sta succedendo ora con Trump, anche agli Stati Uniti.

Il ritorno del Regno Unito non sarà necessariamente giuridico, ma dovrà essere politico e strategico. Ormai tutti abbiamo capito che in una fase in cui il mondo cambia a velocità impressionante, le convergenze contano molto più dei protocolli e dei trattati.

Michele Rutigliano

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