Mercoledì prossimo sapremo davvero, o cominceremo a capire meglio, se il Governo Draghi sia destinato a finire davvero o meno. E in che modo, in entrambi i casi. Cresce la convinzione di chi pensa che si  possa andare a votare il prossimo 2 ottobre.

Sergio Mattarella ha fatto la cosa più corretta e intelligente possibile: rimandare Mario Draghi dinanzi alle Camere. L’unico modo per chiarire le tante cose oscure e la vera posizione che i partiti intendono assumere, stando anche a talune dichiarazioni di voto ascoltate ieri al Senato. L’impressione è che nella maggioranza se ne dicano tante tra di loro, ma che alla fine nessuno voglia le elezioni. L’unica che continua, ma potendo contare al momento davvero su una piccola pattuglia di parlamentari, è Giorgia Meloni. Evidentemente, più presa dalla smania di incassare l’eventuale alto dividendo che le promettono i sondaggi elettorali piuttosto che ragionare sugli aspetti fortemente negativi collegati all’eventuale scioglimento anticipato dalle camere. E, soprattutto, sulla scomparsa del punto di equilibrio e di stabilità rappresentato da Draghi in quest’ultimo anno e mezzo durante il quale, tra pandemia e guerra in Ucraina, si è visto cambiare il mondo. Ma in democrazia, ognuno ha il diritto di reclamare una leadership, anche sulle rovine di un intero paese.

Affinché mercoledì Draghi accetti di restare al suo posto, cosa che oggettivamente appare la soluzione più ragionevole e utile, tutti devono abbassare i toni.

E’ comunque necessario tenere conto che quella raccolta attorno a lui l’anno scorso non è mai stata una maggioranza politica vera e propria. Una condizione di estrema necessità ha forzato Lega e Berlusconi mettersi insieme a Pd e ai 5 Stelle. Sergio Mattarella indicò al nascituro Governo due principali obiettivi: contrastare il Coronavirus e operare per il massimo utilizzo dei fondi del Pnrr. E’ poi arrivato tutto il resto che, però, a rigor di logica, non ha dato vita ad alcun patto pregiudizialmente sottoscritto tra partiti tanto eterogenei. Non è un caso se, nella nostra modestia, già nel febbraio del 2021 intravedemmo nella possibilità della creazioni di “maggioranze variabili” l’unica via per far sopravvivere il Governo fino alla scadenza naturale della legislatura (CLICCA QUI).

A sentire le lamentele dei 5 Stelle, che denunciano lo  smantellamento di molte cose costruite da loro dopo l’8 marzo 2018, e per il primo anno in sodalizio con Salvini, quando nacque questa inedita legislatura, queste maggioranze variabili si sarebbero già di fatto realizzate a loro danno. Ma questa è anche l’occasione in cui Giuseppe Conte, plaudito da Beppe Grillo perché i 5 Stelle sarebbero tornati ad essere i 5 Stelle, può dimostrare che sotto la sua guida il movimento può superare il metodo del “vaffa” pur perseguendo su di una linea di populismo che trova in lui non un Masaniello qualsiasi, ma un vero “avvocato del popolo”. Allora, il quesito che egli si deve porre è solo questo: di cosa ha realmente bisogno il popolo oggi?

Alla  inevitabile scadenza naturale del 2023 ognuno potrà sempre far valere le proprie ragioni e, magari, presentarsi di fronte agli elettori con il merito di non “portare a sbattere” oggi il Paese proprio mentre deve fare i conti con la crisi energetica, l’innalzamento dell’inflazione dello spread e del debito pubblico. E questo quando più gracile si dimostra il nostro sistema politico, istituzionale e di gestione della cosa pubblica e c’è bisogno di dare vita adun autentico processo di rigenerazione che non può non partire dalla politica, dai partiti e dagli uomini politici.

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