“Un partito che voglia portare nella vita associata una ispirazione etica di segno cristiano deve oggi, assai più che non in passato, essere un partito di iniziativa politica e di proposta e non di semplice rappresentanza della realtà già esistente. Quei caratteri che il gruppo dossettiano rivendicava per la Democrazia Cristiana negli anni del dopoguerra tanto più sono necessari oggi se si vuole che il partito abbia davvero, in maniera non nominale, una ispirazione cristiana.”

Lo scriveva quarant’anni fa – ottobre ’81 – Pietro Scoppola in vista della cosiddetta “Assemblea degli esterni” che si tenne in quel lontano autunno. Era la stagione in cui una Democrazia Cristiana che non riusciva ad essere “alternativa a sé stessa”, secondo l’ammonimento di Aldo Moro, avvertiva, ad ogni modo, come fosse necessario ed urgente, forzare il blocco di una inerzia politica che, associata ad una forma-partito ormai inadeguata, comprometteva seriamente quel compito di guida che aveva comunque permesso al Paese di difendere e mantenere indenne il proprio ordinamento democratico, pur passando attraverso fasi destinate ad essere ricordate tra le più drammatiche della sua storia.

“La crisi del collateralismo – continuava Scoppola – non consente che si torni ad un rapporto di vertice con realtà organizzate di tipo sociale e religioso come negli anni cinquanta, ma neppure è immaginabile in Italia un meccanismo come quella della open convention americana……” e sollecitava che, in altra forma, si consentisse la partecipazione alla vita dl partito di “esterni”, appunto, che fossero portatori di “esperienze significative nel campo sociale, culturale e professionale”.

Muovendo dal presupposto che, fin da allora,  si avvertiva “un disperato ed infecondo inseguimento di una somma crescente e sempre più frazionata di spinte corporative chiuse in sé  stesse, al di fuori di ogni visione complessiva di interesse  generale…..”. Senonché: “Nessuna rappresentanza autentica di interessi è ormai possibile senza una sintesi politica”.

Si avviò da allora un confronto sul tema del cosiddetto “partito aperto” tanto vasto quanto improduttivo e, sostanzialmente, l’ “Assemblea degli esterni”, salvo una manciata di candidature eccellenti alle successive elezioni  politiche,  non ebbe alcun seguito di effettiva trasformazione della forma-partito, tale da creare una nuova sintonia tra quest’ultimo ed i mondi vitali che, nella società civile, secondo varie modalità di impegno, potevano farvi idealmente riferimento.

Del resto, i limiti di quell’iniziativa, che pur rispose coraggiosamente ad un’ esigenza ormai matura, stavano nel carattere stesso del tempo storico che, per un verso,  la esigeva, ma dai cui limiti, ovviamente, per altro verso, non poteva prescindere. Lo si comprende meglio oggi, guardando a ritroso,  dallo stesso linguaggio che la accompagnò.

Il concetto di “esterni”, che intendeva segnalare un’apertura, di fatto, confermava, nel frattempo,  come esistessero due campi separati e distinti e ribadiva l’idea di un partito concepito come una cittadella fortificata , che, nel momento dell’assedio, arruolava truppe fresche.

In definitiva, si trattava sì di aprire le porte e di superare una certa accidia autoreferenziale, ma premeva, ad ogni modo, l’intento di serrare le fila, pur senza la pretesa di “militarizzare” la propria area di riferimento culturale ed armare anche le retrovie, come negli anni del collateralismo, bensì alzando  comunque il livello di allerta, anche adottando nuove regole di reclutamento e di ingaggio.

Del resto, la “crisi del collateralismo” che Scoppola, in quegli anni,  richiama, non è che l’approdo di un processo di più vasta portata che prende avvio fin dagli anni dell’immediato post-concilio e corrisponde ad una articolazione interna  al mondo cattolico, che, per certi aspetti, ha assunto toni divisivi, ma, per altro verso – pur in una stagione di crisi della fede – attesta la maturazione di una coscienza critica più consapevole.

La cosiddetta “diaspora” è ineluttabilmente un processo involutivo che condanna l’area cattolica ad un condizione inguaribile di strutturale marginalità oppure è, per altro verso ed a suo modo,  un “segno dei tempi” che invita i credenti a ritrovare una sintonia, anche sul piano della attestazione pubblica della loro cultura, ad un livello più impegnativo ?

Non si tratta, forse, anche sul piano dell’azione politica, di squadernare dalle pieghe della concezione cristiana della vita, quel più intenso timbro di “valore umano” che neppure i credenti sanno forse leggere fino in fondo, eppure chiama, anche sulle questioni ultime della vita e della morte, ad una domanda inaggirabile anche chi proviene da altre frontiere ?

Insomma, superare la diaspora è molto di più che non ricomporre segmenti e schegge, sensibilità ed aspirazioni sparse in giro disordinatamente dalla deflagrazione della Democrazia Cristiana.

Ma, per tornare alla forma-partito, il tema si ripropone oggi, in un contesto civile tutt’affatto diverso, ma che non può, in nessun modo, prescindere dalla presenza di forze organizzate, che sappiamo fare, se così si può dire, il mestiere della politica, cioè si facciano carico di quel compito di sintesi su cui anche Scoppola insiste. Sapendo che se la politica è fatta per tutti, non tutti sono fatti per la politica. La quale, oggi soprattutto, richiede una confidenza con modalità di pensiero e categorie interpretative della realtà che non si acquisiscono dall’oggi al domani, ma rappresentano una particolare attitudine, per  certi aspetti una vocazione, che va accolta ed alimentata.

Superata la fase storica dei partiti di massa che si fronteggiavano in campo aperto alla stregua di armate, oggi abbiamo bisogno di partiti che siano minoranze attive, capaci di inoltrarsi nel vasto campo del pluralismo proprio dei nostri giorni e siano in grado di stabilire intese continuative e durature con altri “mondi vitali” di diversa  mansione.

Dunque, forze politiche che concorrano a creare “reti”  non più ancillari, bensì fondate sulla pari dignità di chi altri vi prenda parte, finalizzate ad una reciprocità dei ruoli, cosicché il partito sappia intercettare alla fonte i fermenti della perenne evoluzione che attraversa le società sviluppate come la nostra e, nel contempo, fornisca a chi non ne esercita direttamente la funzione, una lettura politica intelligente del momento.

Domenico Galbiati

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