Dopo quindici anni di vita ed il sacrificio di nove segretari, il PD ha compreso di essere privo di identità e si mette, dunque, alla ricerca della pietra filosofale, l’alchemica sostanza capace di trasformare in oro sfavillante anche la materia inerte e grigia. E’ così che, per ora, almeno cinque esploratori – Bonaccini, Schlein, De Micheli, Nardella, Ricci – partono alla ricerca dell’ultima Thule. Un posto lontano, la terra estrema dell’ ultima speranza, cantata anche da Francesco Guccini, dove si può finalmente, pur di approdare ad un luogo di pace, accettare perfino di assaporare il gusto acre della morte.

Anche chi non ama il PD e non ne spera nulla, deve guardare con interesse al confronto interno che si svilupperà nei prossimi tre mesi per approdare al Congresso del 19 febbraio, secondo quanto deciso ieri dall’Assemblea del partito, tuttora guidato da Enrico Letta. Al di là dell’esito conclusivo, cioè a prescindere da chi uscirà vincitore dall’imperscrutabile rito delle “primarie”, sarà interessante capire se ad essere protagoniste di questo percorso saranno le “correnti” o piuttosto le “anime” del PD.

Assisteremo ad una mera contesa di potere tutta interna alla “nomenclatura” – in buona sostanza, un assestamento concordato degli equilibri interni o, invece, una più cruda resa dei conti tra clan fortemente personalizzati in capo a questo o a quello – oppure ad un vero confronto politico tra le varie “anime” che compongono il fascio di culture e di indirizzi di fondo differenti che si sono assemblati nel PD?

Se prevalesse quest’ultimo orientamento e si volesse essere conseguenti fino in fondo, i diversi attori della vicenda dovrebbero seriamente considerare l’opportunità di una separazione consensuale. Farebbe meno male all’Italia che cattolici ex-popolari, sinistra riformista e quella estrema, laici di ascendenza socialista, ambientalisti e quant’altre iridescenze ideali vi fossero, restassero buoni amici dimorando in domicili distinti, piuttosto che vivere malamente da separati in casa.

La condizione di grave difficoltà in cui versa oggi il Partito Democratico non può essere imputata a Letta e nemmeno alla lunga teoria di segretari che l’ hanno preceduto. E’ piuttosto il portato inevitabile di un percorso storto che il nostro intero sistema politico ha imboccato a metà degli anni ‘90 ed i cui effetti si sono dispiegati, in forme e tempi differenti, su tutti i protagonisti della vicenda.

Vi sono alcuni “fondamentali” della politica che, ove vengano disattesi o compromessi, determinano una vera e propria distorsione “fisica”, si potrebbe dire, cioè strutturale ed oggettiva dello spazio in cui si sviluppa il confronto politico, come se vi operasse una forza gravitazionale insuperabile, tale da imporre cammini tortuosi e derive involutive cui non si sfugge. La cosa concerne il metodo, i criteri che ordinano il campo su cui si gioca la partita e, dunque, vale per tutti, a prescindere dall’orientamento politico e dai contenuti promossi.

Il fatto è che la politica, diversamente da quanto superficialmente si presume, ha un suo ordinamento interno, una geometria, una impalcatura di regole che vanno rispettate. Ed a metà degli anni ‘90, in piena Tangentopoli, la fretta di seppellire il cadavere della cosiddetta “prima repubblica” e la suggestione catartica ed acritica del “nuovo” a prescindere hanno spinto il sistema politico-istituzionale a commettere due gravi errori. Anzitutto si è imposta, ad un Paese plurale ed articolato, la camicia di forza del bipolarismo maggioritario che – anziché dare vita ad una democrazia dell’alternanza che desse respiro ad una efficace dialettica politica – ha congelato il confronto in una contrapposizione rigida e pregiudiziale tra schieramenti polarizzati e incapaci di riconoscersi in una reciproca legittimazione.

Il secondo errore – e concerne soprattutto il PD – è stato quello di ritenere che si potessero impunemente “fondere” in un partito culture politiche idealmente e storicamente differenti che, se mai, all’occorrenza avrebbero potuto, nella nuova condizione politica, “coalizzarsi”, cioè stabilire un raccordo ed una collaborazione che, riconoscendole, assumesse consapevolmente le differenze, facendone, a quel punto, un elemento di forza. Anziché nasconderle sotto il tappeto, come ha fatto il PD, con il risultato che si sono elise a vicenda, come oggi il partito di Enrico Letta sta tristemente constatando. In un momento storicamente rilevante che, dopo le elezioni dello scorso 25 settembre, vede aprirsi una competizione che, dal momento prettamente politico, si allarga alla ricerca di una più vasta egemonia culturale.

Domenico Galbiati

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