Devo chiedere scusa dell’imbarazzo che provo ad entrare in un discorso tra grandi. Lo stesso imbarazzo del laureando che espone la sua tesi rivoluzionaria ai sommi docenti e vede nel loro sorriso la banalità delle sue teorie. Chiedo venia del mio intervento ai sommi Sofri e Vattimo, massimi del 1968, oggi convertiti al punto da trascinare Galli della Loggia in un dibattito sulla religiosità del papa.

L’articolo del Corriere del 19 maggio di Galli della Loggia, per molte parti è una condivisibilissima analisi dell’aspetto più importante della figura dell’attuale pontefice e del suo pontificato, ma la visione arguta dell’autore si ferma alla evidenziazione che il cattolicesimo di Francesco non è meno politico dell’altro cattolicesimo cosi detto “Curiale”. Esse sono le due anime politiche della chiesa post Benedetto XVI.

Galli della Loggia vuole prima svolgere un chiarimento sul rapporto tra cristianesimo e politica. Indica nella prima parte dell’esposizione che il cristianesimo con la sua teoria dell’uguaglianza sociale, nella diseguaglianza politica del passaggio tra repubblica e impero, nella dimensione etica di lotta alla ingiustizia e alla ipocrisia moralistica, fu il collante dell’impero nel suo sviluppo e nel suo disfacimento attraverso l’identificazione dei nuovi valori che si sviluppavano nei rappresentanti della sua classe dirigente. Nel medioevo il cattolicesimo, diffondendosi, diventa per molto tempo anche un messaggio politico, al punto di divenire con la sua metodologia di organizzazione, il modello della monarchia moderna. Una vera scuola di politica, di cui i gesuiti furono i teorici, sostitutivi dei domenicani. Questo ruolo doveva finire teoricamente con la caduta del Regno pontificio.

Da Leone XIII ad oggi si è dovuto prendere atto che l’impostazione stessa del ruolo politico cambiava e soprattutto la personalità del pontefice regnante diventava ogni volta più incisiva sul piano politico in funzione del suo carisma religioso.

L’apertura ad una maggiore mobilità sociale del reclutamento del ceto episcopale, non più proveniente esclusivamente dal ceto nobiliare, l’apertura addirittura del papato a non nobili – gli esempi più importanti sono papa Sarto e poi papa Roncalli – confermano la disponibilità ecclesiastica verso nuovi processi di formazione interna di una classe dirigente nuova che si internazionalizzava.

Il passaggio fu molto complesso, perché nonostante la perdita dello stato, simbolo della controriforma, l’organizzazione della Chiesa restava fortemente inserita nella dimensione politica, e per di più in un momento di grandi contraddizioni. Il secondo conflitto mondiale distrugge intanto il predominio europeo rispetto alla emergente egemonia americana. La nuova cultura sociale porta alla necessità del Concilio.

Da quel contesto storico si delineava una figura eclettica di pontefice, fino a giungere alla elezione di Giovanni Paolo II che esprime – per la prima volta – l’incapacità della Curia  di gestire e controllare le nuove problematiche. Incapacità confermata dalla conclusione del papato di Benedetto XVI.

Diciamo che Francesco vede in quest’ultimo il suo maestro di pontificato, uomo dolce e sicuramente spirituale, ma determinato nella sua missione, anche se il suo vero ritratto è Papa Giovanni XXIII.

Ecco sorgere le due nuove figure di papa postconciliare: quella dell’apostolo, incarnata da Paolo VI, e quella del missionario, incarnata da Giovanni Paolo.

Così Francesco, erede della Chiesa-missione per la lotta all’anticattolicesimo marxista – ma colpita dalla crociata moralistica sulla sessualità – deve trovare un messaggio che lo collochi sopra i rottami della guerra americana anticattolica per essere credibile. Sceglie lo stile prettamente giovanneo di prete della strada che non fa politica. Tutto il suo pontificato è un messaggio evangelico che parla all’uomo della strada, che riduce la politica alle sole invocazioni umanitarie. Ecco perché diventa l’uomo della pandemia. In essa, con una visione mondiale, ha trovato il riscatto morale della chiesa, condiscendente a tutte le umiliazioni imposte al clero militante, umana e spirituale nella sua presenza. Anche quando viene scacciata, rimane vicina nella morte e nella angoscia dei suoi parrocchiani.

Francesco ha superato l’ostacolo che la politica anticattolica italiana – imposta dalla spinta di provenienza tedesca e americana – gli ha messo davanti. Il suo spirito di servizio, che ha fatto tremare un governo (naturaliter filo Arcigay) che non ha rinunciato a infliggere le piccole umiliazioni procedurali in nome della pandemia, ma che ha portato lo stesso Conte a vedere in lui l’interlocutore santificante l’operato del governo, necessario ai fini di quel controllo della popolazione in un momento di rischiosità massima. Tanto politico da dare consigli politici nelle sue omelie modeste e esattamente sterili sul piano sanitario, che spinge oggi Sofri e Vattimo a riconoscersi “cristiani” (ma si sono dimenticati di aggiungere “cattolici”).

Galli della Loggia ha ragione quando dice che Papa Francesco è un grande politico, perché ha fatto arrivare all’uomo della strada il suo messaggio e ha saputo fargli leggere i suoi messaggi a cui i governanti si sono dovuti adeguare (pur senza rinunciare ai soliti tentativi di emarginare la Chiesa).

Con sottile raffinatezza liturgica, parla dal pulpito, con le vesti sacramentali, riappropriandosi della sua dignità di vescovo e di papa, rendendosi arbitro delle applicabilità etica delle disposizioni del governo, che sostiene indiscusse, ma per questo seguite.

Parafrasando Benedetto XIV, si è rifatto papa da parroco “con distinzione”, rango a cui cercava di ridurlo un governo “di regime”.

Ecco perché persone come gli intellettuali sopra richiamati si sono mossi a criticare Galli della Loggia, quando hanno capito che dovendosi onorare di essere cristiani erano stati messi in scacco matto dal palesamento da questa politica pontificia. Sembra di rivedere la scenetta di Guareschi nella quale Peppone deve inchinarsi al crocefisso.

Si, Francesco è un grande politico, proprio perché ha saputo far credere che non lo è.

Pensiamo all’uso del simbolo della croce astile di Paolo VI, un simbolo a cui questi si appoggiava per ricevere forza, addirittura una lancia nelle mani di Giovanni Paolo II. Francesco ha trovato nella sua croce un simbolo semplice, che non deve suscitare commenti, anonimo, ma di grande richiamo per l’umile che guarda a chi lo impugna e si affida a lui. Forse per questo sarà anche un grande papa evangelico.

La sfida ecclesiale sarà su questo, e riuscirà vittoriosa se riuscirà a mettere capo alla creazione di un nuovo modello di prete ideale.

Una volta si diceva che i politici erano i cattedratici mancati. Chissà se domani si dirà che essi sono i preti mancati.

Ivo Amendolaggine

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