La forza della Democrazia Cristiana nasceva nei territori, maturava nei consigli comunali, si sviluppava nelle amministrazioni locali (Province prima e Regioni poi), si manifestava compiutamente in Parlamento. Un giudizio unanime espresso nel corso di un incontro su “La Dc e la cultura delle istituzioni”, promosso dalla Fondazione De Gasperi, nell’arco delle iniziative per gli 80 anni dalla nascita dello scudo crociato (29 settembre 1942). Giudizio su cui hanno espresso posizioni convergenti Angelino Alfano (presidente della Fondazione), il politologo Lorenzo Ornaghi, lo storico Francesco Bonini e Marco Follini (già vice presidente del Consiglio).
In ogni caso, non si è trattato di una riflessione sul partito-Stato, quanto sulla Dc partito-Italia. Nell’accezione di un partito popolare, chiamato dal voto degli italiani a gestire la ricostruzione e quindi a governare e modellare un’economia a preponderante partecipazione pubblica. E per questa ragione, un partito tessitore di un rapporto profondo con i ceti dirigenti, ma in una posizione di primazia della politica. Quindi, in grado di guidare l’economia. E non il contrario, come poi è accaduto a partire da Mani pulite (al netto dei suoi limiti, dei suoi pregi e della sua intrinseca necessità storica). Infatti, la nascita del bipolarismo all’italiana è figlia esattamente del rovesciamento dei rapporti di forza tra economia e politica. Con quest’ultima, sul modello americano, ancella dell’economia. Al punto che l’erosione della politica ha finito per produrre il progressivo svuotamento delle istituzioni. E di conseguenza l’inevitabile affievolirsi di quella cultura delle istituzioni che caratterizzava non solo la Dc, ma anche gli altri partiti della Prima Repubblica, sia pure in forme diverse.
Ecco perché l’analisi sviluppata dalla Fondazione De Gasperi riporta al centro la questione del primato della politica nel tempo nuovo. E qui la riflessione pubblica appare, purtroppo, oggettivamente asfittica e insufficiente. Comunque non pienamente consapevole dei mutamenti sociali intervenuti e dei cambi di paradigma (soprattutto internazionali). Per ricostruire il primato della politica occorre innanzitutto fare i conti, ad ogni livello (privato e pubblico) con la fluidità (guai a pensare che sia solo quella di genere!), con il trionfo della digitalizzazione, con la friabilità e transitorietà delle leadership, con la crisi conclamata della globalizzazione, con il ritorno della guerra nel cuore dell’Europa, con la velocizzazione dei processi decisionali, con la necessità di riallineare dimensione istituzionale e governabilità, con la fuga progressiva nel privato e l’abbandono dello spazio pubblico (l’agorà), con le nuove e più diffuse povertà, con l’erosione costante dei ceti medi, con l’indebolimento dei servizi primari (dalla scuola alla sanità). E, non ultime, con le nuove questioni antropologiche.
Dinanzi a questi stravolgimenti (talvolta autentiche emergenze), è chiaro che nessun paragone sia possibile con la sfida vinta dalla Dc nel dopoguerra italiano, cioè nel tempo lento del passaggio dal mondo rurale a quello urbano e industriale, segnato dalla speranza post-bellica. Piuttosto, vanno prese le contromisure culturali e cioè di reale comprensione del nostro tempo ultraveloce e a trazione digitale. Un’impresa che non è a carico solo della società e della cultura, ma anche della politica se vuole davvero tornare ad affermare il proprio primato sull’economia. Altrimenti, il nostro destino comune sarà sempre più segnato dalla cinica logica degli interessi. Quella che, a suo modo, può persino giustificare l’ingiustificabile: la tragica scelta della guerra da parte dello zar Putin.
Domenico Delle Foglie