Pur nel rumore della competizione politica, per quanto possa essere aspra, c’è un punto attorno al quale dovrebbero idealmente convergere tutti i partiti: il riscatto della funzione propria della “politica”, la volontà comune di riproporre il suo compito di sintesi, di indirizzo e di governo, a fronte di altri poteri, che non possono vantare la stessa legittimazione democratica e popolare che essa può rivendicare purché risponda, con la necessaria autorevolezza, al suo ruolo e non si consegni essa stessa, in modo imbelle, ad altre opzioni. Insomma, il primato della politica.

Ma non succederà. Più forze hanno costruito le loro fortune sul disprezzo e sul dileggio  della politica perché  possano tornare sui loro passi. Infatti, la politica è stata presa in ostaggio da chi, teorizzandone l’antitesi,  ha  artatamente cercato di riservarne a sé l’esercizio esclusivo.

Gran parte della storia della cosiddetta “seconda repubblica” è stata sovrastato da questa madornale beffa ai danni del popolo sovrano. Lo si è spogliato, spingendolo verso il populismo, nascondendogli che, di fatto, l’antipolitica altro non è se non una subdola e rozza mistificazione, finalizzata a lasciare campo libero a poteri incontrollati che cercano di imporsi, rifuggendo dal controllo democratico. Demagogia e sovranismo rappresentano l’anestetico che consente di condurre tale operazione in modo indolore, senza che si alzi un lamento a segnalarne la brutalità.

Da troppo tempo la politica soffre di un discredito che è andato crescendo nel tempo, sicuramente per colpe, errori ed omissioni di cui essa stessa si è resa responsabile, ma anche grazie ad una attenta, insistita, meticolosa alimentazione di un distacco studiato e suggerito da ambienti che fanno volentieri a meno di un ambito, di un potere popolare e democratico, cioè idealmente a disposizione di ognuno.

Come sosteneva Carlo Donat Cattin la politica è importante perché è la voce di chi non ha voce. E tanto basta, senza aggiungere altro, per motivare il nostro impegno. Tutto ciò, in varia misura, succede, del resto, anche al di là dei nostri confini, per quanto da noi questa involuzione assuma un rilievo paradigmatico. E’ possibile riscoprire la nobiltà della politica? Oppure solo ad accennarvi scivoliamo nell’ utopia o forse nel ridicolo?

Dobbiamo dare per scontato che la politica sia irrevocabilmente consegnata ad un ruolo ancillare, assediata e soverchiata dai cosiddetti poteri più o meno forti, ma, in ogni caso, capaci di morderla e strapparle a brani la sua funzione, dislocandola altrove, privatizzandola, segmentandola, consegnandola ad una inossidabile dimensione tecnocratica ?

Più fattori concorrono a creare una tale condizione. A cominciare da un dato oggettivo, in larga misura inedito: dalla difficoltà, cioè, di decifrare le dinamiche di un mondo che è sempre meno riconducibile ad una lettura  che si avvalga di modelli lineari  in grado di dar conto di connessioni, che – al di là della nuda sequenzialità degli eventi – lascino intravedere il crinale verso cui si inerpica la storia dei nostri giorni, alla ricerca di un possibile orizzonte di senso.

Siamo, al contrario, esposti ad accadimenti che sembrano assomigliare – tipico lo stesso caso della pandemia – ai cosiddetti processi “non-lineari” di cui si occupa la fisica del caos deterministico. Cioè fenomeni che a fronte di un impercettibile scostamento delle condizioni iniziali del sistema danno luogo ad una enorme e del tutto impredicibile divaricazione dei suoi esiti a distanza.

A tempo debito questi processi manifestano spontaneamente la misteriosa comparsa di un “attrattore”, cioè di un punto, di un momento spazio-temporale attorno a cui i loro sviluppi convergono e si stabilizzano, cosicché dal caos emerge un nuovo ordine, che evidentemente risponde ad una legge di necessità e di coerenza intrinseca, talmente intima alla natura da essere inappellabile nei suoi effetti, quanto inattingibile per le nostre facoltà di indagine.

Se qui si nascondesse un’analogia tra fenomeni naturali e processi storici, verrebbe da dire che stiamo cadendo nel cono d’ombra di un accidentalità autoreferenziale, una sorta si autopoiesi, tale per cui le cose accadono o sembrano accadere di per sé ed a noi non resta che smussarne gli angoli, mitigarne gli eccessi, alleviarne i punti di caduta, i deficit di tensione, ma pur sempre lavorando al contorno, senza la pretesa di entrare nel corpo vivo dei processi per governarne lo sviluppo secondo criteri, principi o valori che siano espressione di un nostro orientamento consapevole.

La pandemia è emblematica da questo punto di vista: un evento singolo, locale, del tutto accidentale qualunque ne sia stata l’origine si è moltiplicano esponenzialmente fino ad una dimensione planetaria, rivelando come, al di là di ogni possibile progresso, la nostra condizione esistenziale sia irrevocabilmente segnata dalla precarietà e da un limite che invoca, ben oltre la salute, una domanda di senso e di salvezza. Insomma, la storia si fa da sé e noi ne siamo soltanto ospiti e spettatori? 

La politica è, tutt’ al più, capace di mantenersi sulla cresta spumeggiante dell’onda, credendo di dirigerne il corso, ma in realtà senza sapere dove questa la faccia spiaggiare, mossa, piuttosto, da poteri “altri” rispetto al suo? Forti o meno che siano, i poteri della finanza o piuttosto  dell’economia reale, quelli della scienza o della tecnica, dell’ informazione  e della comunicazione ed altri ancora, del mercato e del profitto, sono, ognuno a suo modo, connotati da una parzialità e posseduti dalle rispettive tecnocrazie.

Tocca alla politica aspirare ad un punto più eminente di osservazione che permetta di andare oltre la miopia di questi approcci necessariamente frammentari per tentare una sintesi  che sia dotata di senso ed almeno potenzialmente in grado di esprimere una direzione di marcia. Un secondo processo concorre a limitare l’attitudine della politica a “governare” gli eventi e la loro evoluzione.

Abbiamo in larga misura smarrito il senso della durata e della profondità del tempo, sia che volgiamo il nostro sguardo all’indietro, sia che cerchiamo di penetrare il domani che ci attende. Costretto nell’immediatezza del presente, assediato dal “nuovismo” di maniera oggi prevalente il tempo si rattrappisce e fatichiamo ad ascoltare la lezione del passato ed ancor più a coltivare il sentimento di attesa e la speranza che dovrebbero consentirci di affrontare con fiducia il suo avanzare.

Senonché, la storia non è il tempo che passa e si disperde sfilacciandosi nel vuoto dell’oblio. La storia è piuttosto il tempo che si accumula e un anno dopo l’altro, un’ epoca dopo l’altra esercita su sé stesso una pressione crescente che ne distilla progressivamente il senso, una comprensione via via più profonda della successione degli eventi e della coerenza interna che ce ne dà ragione.

Non a caso le culture politiche – a cominciare dalla nostra, ma vale per tutte – hanno una persistenza nel tempo ben maggiore di quanto comunemente si creda. Se viene meno, come oggi succede, la dimensione della trascendenza che è sì connessa alla concezione religiosa della vita, ma vale per tutti, non siamo più in grado di guardare “oltre” e la politica, soprattutto in una stagione di trasformazione e di svolte epocali com’è la nostra, viene profondamente ferita, cozza contro un orizzonte chiuso ed impenetrabile, che, a sua volta, si risolve in un atteggiamento di rassegnazione e di passivo abbandono.

Anche per questo una concezione cristiana dell’uomo, della vita e della storia è, oggi in modo particolare, di grande rilievo per la costruzione, dopo quella degli antichi e dei moderni, della democrazia del tempo post-moderno.

In questa logica, il compito di un partito di ispirazione cristiana – e l’argomento merita di essere meglio sviluppato – è anche quelle di riportare la politica, cioè l’attitudine a “pensare politicamente”, come insegnava Lazzati, tra la “gente” perché torni ad essere “popolo” e ciascuno sappia esercitare quella capacità critica e quella autonoma di giudizio necessarie perché ogni cittadino – come sostiene Jean Luc Marion – diventi “attore politico”. Condizione “sine qua non” per superare il populismo.

Domenico Galbiati

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