Come ci ammonisce, in altro contesto, Papa Francesco, “tutto si tiene”. E questo è sommamente vero in politica.
Si potrebbe, anzi, dire che la politica è elettivamente il luogo in cui, a maggior ragione, “tutto si tiene”. A tal punto che, ove questo reciproco rapportarsi dei temi in questione non si mostri di per sé, si rende necessario attivamente ricomporre in una sintesi ragionata una pluralità di segmenti scomposti, per poterne cogliere il senso compiuto. Senonché, la scansione temporale degli eventi più rilevanti del calendario politico consente, fortunatamente, anche di esaminarne ciascuno nella sua singolarità, pur senza smarrire la connessione con gli altri momenti del più ampio contesto in cui è inserito.
In fondo, il “settennato” presidenziale è stato concepito dai padri costituenti, appunto, per smarcarne la cadenza dalla periodicità quinquennale della consultazione politica generale. Il settennato del Presidente Mattarella – salvo, forse, la stagione del terrorismo più cruento – ha coinciso con la fase politicamente più indecifrabile, delicata, complessa come un ricamo, fragile come un cristallo della nostra vicenda democratica. Il momento che più di ogni altro ha chiesto al Quirinale freddezza e fermezza, cioè attitudine a cogliere, senza titubanza, la natura propria del dato politico-istituzionale in essere al momento e capacità d’intervenire senza sbavature, eppure efficacemente, rispettando rigorosamente potenzialità e limiti delle proprie prerogative costituzionali. Sarebbe stato facile, per ogni altro Presidente, e per taluni che tale ruolo hanno effettivamente ricoperto, smarrire, per difetto o per eccesso, il senso della misura.
Il Presidente Mattarella, commemorando, in questi giorni, Giovanni Leone a vent’anni dalla scomparsa, ha ripreso
un argomento: l’illegittimità o, almeno, l’inopportunità politica ed istituzionale di dare corso ad un secondo mandato presidenziale. Cosa già evocata, anche in occasione del ricordo del Presidente Segni.
Siamo costretti a prendere atto della sua indisponibilità a qualunque ipotesi di nuovo mandato? Pare proprio di sì. E’, dunque, doveroso farlo, per rispetto della volontà del Presidente. Anche accogliendo la sua dichiarazione come un contributo a porre l’elezione del suo successore sul piano di una grande schiettezza di fronte al Paese. Sottraendola alle alchimie di un confronto compromissorio tra le forze in campo, che finisca per sacrificare alle opportunità tattiche del dato politico contingente la visione strategica e di lungo periodo in cui, necessariamente, s’inscrive l’elezione della più alta magistratura dello Stato.
Non si può ragionare del “se” o del “ma”. Eppure, un secondo mandato a Sergio Mattarella avrebbe messo il Paese in sicurezza sia sul piano interno dove ci aspettano, nei prossimi anni, percorsi probabilmente complessi e forse tortuosi, sia sul piano della nostra credibilità internazionale, troppe volte scossa e compromessa negli ultimi decenni.
Forse non sarebbe stato altrettanto comprensibile chiedere al Presidente Mattarella il sacrificio di restare al Quirinale solo fino alla scadenza elettorale del ‘23, cioè, verrebbe da dire, soprattutto con la funzione di mantenere l’attuale assetto politico ed assicurare al Paese la superiore e felice baldanza che la competenza e l’autorevolezza di Draghi assicurano al governo del Paese.
Del resto, la situazione, anche nel caso fosse stato confermato il tandem Mattarella-Draghi, da taluni, anzi da molti auspicato, sarebbe apparsa – ed è in effetti tuttora così – meno scontata di quanto sembri, anche ad immaginarne gli sviluppi secondo la più lineare coerenza al dettato costituzionale ed alla prassi istituzionale invalsa. Eletto infatti il tredicesimo Presidente, il governo di rito si dovrà dimettere nelle mani del nuovo inquilino del Quirinale. Il quale avrà sì facoltà di rinviare il Governo in carica alle Camere, ma con quale attendibilità si può ritenere che le forze politiche dell’attuale maggioranza via via si avvicinerebbero al momento del voto, mantenendo, se non altro, quel tanto di reciproca solidarietà e di sinergia, comunque necessarie per governare insieme, pur attratte ed assorbite nel buco nero di una campagna elettorale ultimativa? Oppure, il conferimento di un nuovo incarico, sia pure ancora allo stesso Draghi, potrebbe prescindere dall’ invito a dotarsi questa volta di una maggioranza parlamentare che, diversamente dall’attuale, conferisca al nuovo governo una puntuale fisionomia politica?
Tornando alla prima opzione, la prolungata permanenza di un governo detto di unità nazionale, in tanto e in quanto espressamente privo di una definita personalità politica, non rischia forse, per un verso, di configurare il Capo del Governo, come una sorta di “commissario ad acta” – più o meno autoritativamente imposto dal Quirinale, quasi fino al punto di dettargli il compito – e, per altro verso, indurre nell’elettorato la convinzione che la governabilità del Paese possa essere tanto più efficace quanto meno ci mettono mano i partiti ? Non è, piuttosto, il caso che le forze politiche dell’attuale maggioranza, comunque impegnate in un percorso di convergenza e di condivisione dei punti programmatici essenziali del governo Draghi – lotta alla pandemia e PNRR – nobilitino, se cosi si può dire, questa esperienza?
Si è trattato e si tratta, ad ogni modo, di un cammino virtuoso, da cui trarre spunto per una lettura corretta del ruolo costituzionale del Capo dello Stato. Affidando, quindi, congiuntamente il compito di rappresentare l’unità del Paese ad una personalità eminente che sia davvero in grado di garantire un esercizio imparziale delle sue funzioni. Non potrebbe essere questo un primo significativo passo nella direzione di riaccreditarsi di fronte all’intero Paese, se i partiti si mostrassero, per una volta, capaci di guardare all’interesse oggettivo del Paese? Anziché trasformare l’elezione del Presidente della Repubblica in un gioco estenuante di reciproci appostamenti, funzionali solo ad acquisire una miglior posizione d’attacco in vista delle prossime elezioni politiche. Offrendo, cioè, una lettura limpida dell’elezione presidenziale. Sottratta al sospetto che sia frutto di un defatigante lavoro di compromessi, artatamente funzionali ad altri obiettivi di bottega politica contingente, che con il Quirinale c’entrano poco o nulla.
Per quanto questo metodo limpido e lineare, se mai fosse possibile, paradossalmente non favorirebbe proprio la candidatura più accreditata, cioè quella di Draghi. Egli è talmente coinvolto nel “momento” politico da far ritenere che molti consensi alla sua elezione potrebbero essere interpretati come funzionali ad altro, ad esempio da chi sostiene la conclusione anticipata della legislatura. Soluzione quest’ultima che avrebbe, soprattutto in questo momento, il sapore di un “karakiri” imposto al Paese e, guarda caso invocato, a dimostrazione dell’incongruenza e dell’inattendibilità di tanto proclamato “amor patrio” dai Fratelli d’Italia e, tanto per annusare un’altra pista che, sia mai, si riveli produttiva, dai segugi della Lega.
Domenico Galbiati