Nei giorni scorsi sono circolate alcune ipotesi di riforma del Reddito e della Pensione di cittadinanza, elaborate a livello tecnico dal ministero del Lavoro sulla base delle indicazioni contenute nella legge di bilancio 2023, che hanno scatenato una ridda di commenti sui mass media.

Buona parte dei commentatori riconosce l’esigenza di introdurre delle modifiche all’impianto normativo della legge n. 26/2019, già corretto più volte dal legislatore in particolare per le parti dedicate alle condizionalità e alle sanzioni per le mancate accettazioni delle offerte di lavoro (CLICCA QUI).

L’opinione prevalente asseconda l’idea che le risorse dedicate allo scopo debbano essere aumentate in relazione alla crescita del numero delle persone in condizioni di povertà assoluta, che nel frattempo sono aumentate sino a raggiungere il record storico di 5,6 milioni (+600mila rispetto al 2018, indagine Istat 2022). Una crescita motivata dalle conseguenze economiche e sociali della pandemia sanitaria, ma che, sul versante opposto, potrebbe essere interpretata come una sorta di fallimento del Rdc, se tiene conto della mole di risorse statali erogate nel corso dei 4 anni di gestazione, circa 27 miliardi di euro, e di quelle aggiuntive erogate dallo Stato, circa 170 miliardi di euro, per contrastare gli effetti dei lockdown sui redditi delle imprese e delle famiglie.

Le discordanze tra le platee dei poveri stimate dall’Istat per tipologie di persone, famiglie, cittadinanza, territori e le statistiche relative ai beneficiari del Rdc dell’Inps (nel complesso più di 5 milioni tra Reddito di cittadinanza e pensione di cittadinanza, 5,8 milioni sommando anche i beneficiari temporanei del Reddito di emergenza nel 2020-21) sono notevoli. Senza indugiare troppo sui numeri, che comunque sono facilmente riscontrabili, possiamo identificarle: nel sovradimensionamento dei percettori nelle regioni del Mezzogiorno e nel sottodimensionamento di quelli residenti del Nord Italia; nella rilevante incidenza dei beneficiari single; nel mancato coinvolgimento di circa la metà dei minori poveri potenzialmente interessati; nel marginale coinvolgimento delle famiglie immigrate, che rappresentano il 29% del totale di quelle stimate dall’Istat.

Per rimediare una parte di queste criticità il Comitato ha formulato 10 proposte. Le più rilevanti invitavano il legislatore a: rivedere le scale di equivalenza per la selezione dei beneficiari e per il calcolo delle prestazioni, riducendo l’importo di base per le persone single e aumentando i coefficienti di rivalutazione per i minori e il massimale usufruibile delle prestazioni per le famiglie numerose; dimezzare il requisito di residenza da 10 a 5 anni per aumentare la partecipazione delle famiglie immigrate; allargare le offerte congrue di lavoro e gli incentivi per le assunzioni anche ai rapporti di lavoro a termine e a part-time; consentire entro certe soglie di cumulare il sostegno al reddito con i salari per premiare i comportamenti attivi nella ricerca di un nuovo lavoro.
Nessuna di queste proposte e delle altre formulate dal Comitato era stata recepita dal Governo allora in carica. Nel frattempo, Il Parlamento aveva approvato due importanti provvedimenti legislativi: la nuova riforma degli ammortizzatori sociali, con un finanziamento aggiuntivo di circa 5 miliardi di euro; l’introduzione dell’Assegno Unico universale, con un finanziamento aggiuntivo di 7 miliardi di euro.

Quest’ultima misura, in particolare, ha fornito un contributo formidabile nel sostenere i redditi delle famiglie numerose, specie di quelle fiscalmente incapienti e dei lavoratori autonomi che non usufruivano degli assegni familiari e delle detrazioni fiscali per i carichi, e con minori figli di immigrati con almeno due anni di residenza in Italia. Una misura che, secondo l’Istat, ha riscontrato un impatto positivo due volte superiore a quello ottenuto dal Rdc per la riduzione dell’intensità della povertà assoluta.

La normativa che armonizza l’introduzione dell’assegno unico con il calcolo del Rdc prevede due novità: la sottrazione della scala di equivalenza dal calcolo del sussidio per ogni minore a carico; l’esclusione degli importi dell’assegno unico dalla stima del reddito da inserire nelle dichiarazioni Isee.

Per l’insieme di queste novità il quadro di riferimento per la riforma del Rdc risulta drasticamente mutato. L’esclusione degli importi dell’assegno unico per il calcolo del reddito Isee consente un margine di partecipazione al Rdc, o alla nuova misura che sarà prevista, di gran lunga superiore per le famiglie numerose rispetto ai 9.360 euro attualmente previsti. Il contributo per ogni minore a carico risulta più elevato di quello originariamente previsto per il Rdc (2.100 euro l’anno e non più 1.200 euro), indipendente dai massimali di equivalenza previsti. Viene esteso alle famiglie incapienti impossibilitate a utilizzare le detrazioni fiscali per i minori a carico e gli assegni familiari. Viene erogato ai minori stranieri a prescindere dal requisito di residenza degli adulti.

Se le cose stanno in questi termini, per rendere più efficace l’azione di contrasto della povertà, la nuova misura che sostituirà il Rdc può consolidare questi risultati: potenziando in via provvisoria l’importo dell’assegno unico per i minori a carico delle famiglie povere; mantenendo l’attuale scala di equivalenza riservandola solo alle persone adulte e ampliando di conseguenza la partecipazione di quelle a carico nelle famiglie numerose; riducendo il numero degli anni di residenza in Italia, come proposto dal Comitato Saraceno, per allargare quella degli immigrati adulti.

Il fallimento delle politiche per l’inserimento lavorativo dei beneficiari del Rdc in età di lavoro era del tutto prevedibile, data l’inapplicabilità della norma, che prevedeva la possibilità di rifiutare tre offerte di lavoro prima di essere sanzionati con la perdita del sussidio. Ironia della sorte: sono gli stessi protagonisti che si erano inventati queste politiche del lavoro per giustificare l’introduzione del Rdc che stanno chiedendo di mantenerli inalterati per i beneficiari in grado di lavorare, sulla base della constatazione che una buona parte degli stessi risulta poco occupabile.

In questa direzione, condizionare l’erogazione dei sussidi alla partecipazione effettiva alle misure di politica attiva del lavoro all’accettazione di tutte le proposte di lavoro contrattualmente regolari, sanzionando i rifiuti e consentendo la cumulabilità tra i sostegni al reddito e i salari, come proposto dal Comitato di valutazione, rimane la via maestra da intraprendere.

I quattro anni di gestazione del Rdc suggeriscono le quattro direttrici da adottare per rendere efficaci le misure: valorizzare le misure già adottate per lo scopo di ridurre i rischi di impoverimento delle persone e delle famiglie; riportare la finalità dello strumento alla sua funzione principale di contrastare la povertà indirizzando prioritariamente le risorse disponibili verso le persone fragili; limitare l’utilizzo dei sostegni per le persone in grado di lavorare incentivando la proattività delle stesse nella ricerca del lavoro e la partecipazione alle misure di politica attiva; riequilibrare il rapporto tra gli interventi centrali di sostegno al reddito, rafforzando i servizi territoriali e le misure per l’inclusione sulla base delle caratteristiche soggettive e famigliari delle persone coinvolte.

Natale Forlani

Pubblicato su Il Sussidiario.net (CLICCA QUI)

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