Il Santo Padre è tornato sul tema dell’eutanasia e del suicidio assistito anche nei giorni scorsi, nel messaggio in vista della Giornata Mondiale del Malato che ricorre, come tutti gli anni, il prossimo 11 febbraio, anniversario della prima apparizione di Maria a Lourdes.
Ha ribadito con fermezza l’assoluta contrarietà del Magistero della Chiesa ad ogni comportamento che ferisca la sacralità della vita umana: “….senza alcun cedimento ad atti di natura eutanasica, di suicidio assistito o soppressione della vita, nemmeno quando lo stato della malattia è irreversibile”. La vita “inviolabile ed indisponibile……va accolta, tutelata, rispettata e servita dal suo nascere al suo morire: lo richiedono contemporaneamente sia la ragione sia la fede in Dio autore della vita”.
Con questo riferimento alla ragione, Papa Francesco pone una questione che ci interroga e ci sfida ad invertire una corrente di pensiero che, scivolando giù per la china del cosiddetto “politicamente” corretto”, approda ad un falso buonismo che giustifica tutto e finisce per accreditare supinamente una sorta di diritto alla morte che è, al contrario, una assurdità sia dal punto di vista giuridico, sia se considerato in senso esistenziale.
Cosa può dire un uso corretto della ragione nel merito?
Anzitutto, che la vita e la morte che comunemente consideriamo antitetiche sono, al contrario, così intimamente intrecciate da non sopportare uno iato tanto radicale, netto ed ultimativo, talchè si potrebbe scegliere la vita e rifiutare la morte, accelerando volontariamente la propria fine pur di sfuggire al processo del “morire”.
Il detto popolare secondo cui “si muore come si è vissuto”, a ben vedere reca in sé una saggezza antica e consolidata; riconosce quel nesso indissolubile per cui si può dire che anche la morte va vissuta; è parte integrante di quella complessiva esperienza che rappresenta il vero patrimonio di ciascuno. Qualcuno potrebbe obiettare che tutto ciò vale per chi crede e concepisce  la morte non come lo sprofondare nel buio gelido del nulla, bensì il transito ad una vita più ricca cui approdare recandovi integralmente se stessi.
Senonchè la dignità della vita che qui è comunque in gioco – si acceda o meno ad una considerazione sacrale della stessa – vale per tutti, per ogni persona indifferentemente, sia o meno credente. Del resto, nessuno si dà la vita da solo. Questa è, piuttosto, un dono, anche per chi non crede ed evoca, al suo stesso apparire, un sentimento di gratitudine e di riconoscenza. Immediatamente indica, come suo momento fondativo, una relazione, una dipendenza che per chi non crede in Dio, va almeno verso quello stupefacente cosmo nel cui cuore nasciamo senza averlo chiesto.
Quello che non ci sta è il concepire la vita secondo il metro di una presunta autosufficienza e di una autoreferenzialità che si traduce in un orizzonte chiuso di freddezza e di disperata solitudine. Non è forse questo il sentimento verso cui si sentono sospinti quei pazienti in gravissime condizioni che, pur solo in uno stato di abbandono affettivo e di prostrazione profonda, evocano la morte? Non è, infatti, piuttosto vero che solo quando deprivati di ogni relazione autentica è come se, piuttosto che invocare la morte, la avvertono come già intervenuta, cosicchè non resti che ratificarla?
Quale immaginiamo debba essere il compito di una società davvero “civile” e dunque accogliente, aperta a sentimenti di reciprocità solidale? Può definitivamente sospingere ancora un passo oltre la soglia di un abbandono definitivo e calare il sipario sulla vita di queste persone che sono pur sempre dentro il contesto vivo di una comunità? O non deve piuttosto attivare tutti gli strumenti che possono concorrere a ricostruire, quanto più possibile, una trama di relazioni tali da rigenerare un senso significativo della vita anche per chi soffra limiti e deprivazioni funzionali tanto severe?
E’ attorno a questo nodo tematico che vorremmo richiamare l’attenzione e la disponibilità di tutte le forze politiche.
C’è – purchè ciascuno rinunci a brandire ideologicamente un tema così delicato – spazio per un’azione comune di grande civiltà cui, appunto, possono concorrere, per un verso, coloro che privilegiano il valore etico della vita, per altro verso, chi sia più attento ai profili sociali in gioco. Del resto, non c’è contraddizione, ma piuttosto una necessaria sinergia tra l’uno e l’altro di questi due versanti valoriali.
Insomma, la vita non è un possesso solipsistico ed esclusivo. Se così fosse, se accettassimo – più o meno consapevolmente e sia pure per un processo di progressiva assuefazione, quasi impercettibile – di approdare ad una concezione della vita così sgranata per segmenti incomponibili, comprometteremmo perfino le condizioni essenziali per la costruzione di ogni possibile ordinamento democratico.
Domenico Galbiati

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