Molti si stupirebbero se un soldato di carriera, sopravvenuta una guerra, si sottraesse alla battaglia. A poco varrebbero eventuali sue giustificazioni: “Ho sempre subito il fascino della divisa militare però la guerra vera è un’altra cosa. Adesso ho terrore. Penso ai miei cari …”. Quasi tutti (Don Abbondio sarebbe molto comprensivo) lo considererebbero un disertore. Il soldato ha optato per un mestiere pericoloso ed è chiamato ad onorare la sua scelta non solo nei tranquilli tempi di pace.

Ogni mestiere o professione o prestazione d’opera in senso lato che ognuno si trova a svolgere, per scelta o per circostanze di vita, devono essere praticati con diligenza, rettitudine, impegno. Con sacrificio, se necessario (dove sacrificio viene da sacrum facere: fare qualcosa di sacro). È il proprio dovere. È quanto è richiesto di fare.

Questo vale anche per i Medici e gli Infermieri. È certamente meno gravoso occuparsi di pazienti con poche patologie, facili da curare; di persone di buon carattere, collaboranti, riconoscenti; di malattie che non comportino rischi per la salute per il professionista. Tuttavia, occorre assistere tutti: anche le persone “difficili”, anche le persone contagiose. Un Medico o un Infermiere che violassero questo codice di comportamento commetterebbero un reato e rischierebbero la radiazione dal proprio Ordine.

Grazie al comportamento dei tanti che hanno fatto la loro parte nella attuale drammatica temperie, la parola “dovere” sembra aver riacquistato dignità. Siamo vissuti per troppi anni nell’imperio dei diritti, anche i più estremi, a volte pretesi con arroganza o con l’infantile atteggiamento del capriccio. In nome della non-discriminazione verso i richiedenti si è finito per discriminare chiunque avesse parere opposto. Il dovere è stato relegato nell’implicito: qualche medaglia e qualche corona d’alloro alle vittime di mafia, ai magistrati, ai poliziotti, ai carabinieri … Ora il senso del dovere sembra riprendersi il posto che merita: ha, eticamente parlando, pieno diritto di parola per reclamare diritti solo chi fa bene il proprio dovere.

Rimane tuttavia vero che compiere il dovere connesso al proprio lavoro può richiedere del coraggio. L’etimologia della parola sembra provenire dal provenzale e poi dal francese antico che corrisponde al vocabolo latino “coraticum”. “Forza d’animo nel sopportare con serenità e rassegnazione dolori fisici o morali, nell’affrontare con decisione un pericolo, nel dire o fare cosa che importi rischio o sacrificio” precisa l’Istituto Treccani. A me il vocabolo richiama cor e agere: agire col cuore. Senza rinunciare all’intelligenza e al raziocinio ma lasciando che l’ultima parola spetti “al cuore”. Intendendo con “cuore” non il nostro muscolo più famoso bensì un’istanza metafisica e meta-razionale, contenitore ed elaboratore dei nostri valori, delle nostre emozioni e del nostro temperamento.

Svolgere il servizio politico a Palermo è costato la vita a Piersanti Mattarella. Essere magistrato in zone ove le cosche criminali controllano capillarmente il territorio implica mettere a rischio la propria vita, se si fa fino in fondo il proprio dovere. Spegnere gli incendi divampati recentemente in Australia ha richiesto tanto coraggio e molte vite ai Vigili del Fuoco. Assistere gli ammalati di COVID-19 ha causato molti contagi e molte vittime fra gli operatori sanitari i quali hanno continuato a lavorare sempre più consapevoli del pericolo mortale che affrontavano.

Premesso quanto sopra, e accettato che ricevere un ringraziamento per il proprio operato fa piacere a tutti, si può provare a comprendere l’imbarazzo e l’insofferenza di quei Medici ed Infermieri che non tollerano di essere definiti “eroi”. Essi affermano di aver semplicemente fatto il proprio dovere, di aver onorato la propria divisa, di essere stati conseguenti con la scelta della loro specializzazione (alludo in primis ai Colleghi infettivologi e rianimatori, ma ovviamente non solo a loro).

Schernendosi, essi non solo richiamano un principio di realtà ma suggeriscono implicitamente una domanda: “Capite ora cosa sia il Servizio Sanitario Nazionale, di quali compiti si sobbarca, su quali doveri si basa, quali sacrifici possa richiedere?”. Forse, per qualcuno, il sottrarsi al pubblico plauso è anche dettato da un malcelato risentimento covato per i tanti anni di ridimensionamento del personale, di blocchi delle assunzioni, di turni pesantissimi, di qualità di vita forzatamente svilita. E perché no, di stipendi bloccati. Dietro il loro “non siamo degli eroi” potrebbe nascondersi qualche provocazione implicita: “Era proprio inevitabile tagliare fondi al Servizio Sanitario Nazionale? Si poteva/doveva assegnargli una priorità? Era proprio giusto metterlo in competizione con le strutture private profit?” (principio fissato il quale – almeno in alcune Regioni – i risparmi delle strutture pubbliche virtuose sono stati girati a quelle profit perché crescesse il loro ruolo di competitor…). L’atteggiamento di quanti si scherniscono davanti alla qualifica di “eroe” ha anche una valenza culturale: me l’ha evidenziata un amico carissimo, medico eccellente. Dare dell’ “eroe” a chi fa il proprio dovere significa ammettere implicitamente che non sia dovuto farlo nel contesto di situazioni difficili. In altre parole, significa dare per scontato che sia ammissibile e quasi “normale” sottrarsi al proprio dovere quando questo comporta sacrifici. Insomma, un optional e non un must. È un atteggiamento pericoloso e fuorviante. Qualche cattivo esempio, purtroppo, c’è stato.

Riabilitato il dovere, mi chiedo: che cosa può renderne eroico l’espletamento travalicando la dose di “ordinario” coraggio che esso può implicare? A maggior ragione quando non c’è (più) alcun dovere da assolvere: è il caso dei volontari, soprattutto dei pensionati, che si offrono pur essendo anziani. Da tempo l’entità e la qualità del volontariato rappresenta una vera gloria della nostra Patria.

Sono molto interrogato dalle motivazioni, dalle spinte che muovono al coraggio estremo e lo trasformano in eroismo. Chiarisco subito che qui non desidero addentrami nella disamina del martirio subito a causa della propria fede religiosa.

La prima considerazione che mi balza alla mente è che siamo persone, non individui. In quanto persone, siamo immerse in un circuito di relazioni. “Nessun uomo è un’isola” mi rivelò una persona che aveva molta più cultura di me e conosceva John Donne. Certo, in molte circostanze, si fa fatica a sentirsi dentro una rete di rapporti e si crede di essere soli, davvero soli. È il dramma di questi tempi: Theresa May nel 2017 ha istituito un Ministero per la Solitudine nel Regno Unito.

Alcune scoperte della fisica quantistica (materia per me assolutamente ostica) sembrerebbero sconfessare un assioma che tutti riterrebbero lapalissiano: che cioè, se una particella è in un certo punto X non può essere, contemporaneamente, nel punto Y. Non solo, sembrerebbero anche dimostrare che ciò che ha lo stato di onda collassi – abbandonando la pluripotenza dell’ “ovunque” – per assumere lo stato di particella dotata di una posizione finalmente univoca solo dopo la “relazione” con uno strumento esplorante.

Quindi, se ben comprendo, anche la materia attende la relazione per “trovare un suo posto” nell’universo. Quanto più le persone! Quindi, se tutti siamo sempre e comunque in relazione con qualcuno forse dobbiamo tenerne conto quando ci apprestiamo a intraprendere comportamenti che mettono a repentaglio la nostra vita. “Se morissi, che ne sarebbe dei miei cari più intimi, dei miei amici più stretti, di quella persona anziana che dipende dalla mia assistenza? …”. In altre parole: “Posso fare le mie scelte prescindendo dai loro interessi, dalle loro aspettative, dalle conseguenze della mia possibile morte?”.

In aggiunta alle conseguenze legate alla perdita della propria persona, non andrebbero trascurate quelle che si abbatterebbero direttamente su altri a causa di quanto ci si accinge a fare: un atto di eroico coraggio potrebbe avere conseguenze nefaste su molte persone. Mi tornano alla mente episodi di resistenza in tempo di guerra o di dittatura quando ogni minimo gesto di opposizione costava efferate torture e anni di carcere a chi si esponeva ma anche ritorsioni pesantissime, a volte estreme, su parenti e amici. L’espletamento del dovere del buon cittadino che si batte coraggiosamente per la libertà della Patria può costare il sangue di molti (la bomba di via Rasella e le Fosse Ardeatine ce lo ricordano).

Ci sono poi le componenti delicatissime e mai del tutto sondabili del proprio “foro interno”: valori laici e religiosi, ideali, principi di giustizia sociale, senso di appartenenza sono solo alcuni dei potentissimi inneschi degli atti di eroismo. Ma, mi chiedo, perché si vuole essere fedeli a tutto ciò? È veramente solo, o almeno soprattutto, per il bene di tutti (ad extra) o per il mero (narcisistico?) soddisfacimento della propria coerenza interna (ad intra)?

Voglio pensare che la prima motivazione sia proprio quella che ha spinto tante persone a rischiare o perdere la vita durante la pandemia della COVID-19. Chino il capo e resto in silenzio, commosso, pensando con grande rispetto e ammirazione alle vittime. Il verificarsi della seconda ipotesi, invece, mi susciterebbe qualche perplessità. Potrebbe trattarsi, almeno in qualche caso, di una sorta di dipendenza dalla stima sociale (in vita o nel ricordo dopo la morte: un po’ il Dei Sepolcri di Foscolo), da quello che gli altri pensano di noi, dalla nostra immagine pubblica sui social o nella cerchia dei propri amici. È noto che non pochi creano falsi profili virtuali ove recitano la parte di chi e di come vorrebbero apparire agli occhi altrui; altri vivono nella vita reale sdoppiati in due (o più) personalità da esibire all’impronta. Assimilabile a quanto appena espresso mi sembra la moda del “daredevil selfie” cioè l’auto-scatto in situazioni di pericolo estremo appositamente ricercato. La dipendenza dalla stima degli altri come fondamento della propria persona non è debolezza dei soli appartenenti alle Generazioni X o Z: è fenomeno antico che la tecnologia ha adesso esasperato e reso addirittura un po’ ridicolo (mi riferisco alla ricerca ossessiva dei like ricevuti da sconosciuti).

Con quanto sopra espresso non intendo assolutamente sostenere che “gli eroi” sono tutti e solo dei narcisisti temerari. Me ne guardo bene. Piuttosto, ho voluto riflettere su alcuni degli elementi del discernimento che, penso, ognuno è chiamato a fare allorché i fatti della vita gli impongono di valutare se mettere in atto o meno comportamenti eroici. Una rigorosa analisi delle proprie motivazioni, l’individuazione sincera del cui prodest, la considerazione delle conseguenze della propria morte e delle ripercussioni sulle persone più strettamente relazionate potrebbero essere opportune.

È in gioco il bene “vita”: in Italia ad esso implicitamente si allude nella prima parte dell’art. 32 della Costituzione allorché vi si definisce la “salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Alla collettività, cioè, “interessa” che una persona sia in buona salute, cioè viva. Dal punto di vista legislativo la vita è considerata bene indisponibile ex artt. 579 cp, 580 cp e 5 cc sebbene con una giurisprudenza enorme. Questa riflette le molte interpretazioni che i giudici hanno ritenuto di voler applicare (o introdurre tout court) nella casistica sempre più variegata degli ultimi anni. Nel groviglio delle sentenze due antropologie sono “l’una contro l’altra armata”: la vita come bene dell’individuo di cui questo è libero di fare ciò che vuole (persino di disfarsene quando lo ritenesse opportuno) e la vita anche come bene relazionale. Quindi, non solo della persona che lo ha ricevuto ma anche della collettività: che può reclamarne una cura attenta e una salvaguardia responsabile. Se la vita non è come un paio di scarpe, delle quali si può disporre a piacimento e buttarle via quando non piacciono più; se anche fosse che “la vita è una sola” la collettività chiede – proprio per questo! – che sia spesa bene. Si può offrirla, come dono estremo, ma per qualcosa che abbia veramente un grande valore e non per una banalità, per un capriccio o per illudersi di fare uno sberleffo alla morte.

La pandemia che tutti viviamo è foriera di situazioni imprevedibili, inaspettate, che a volte impongono decisioni rapide. Avere le idee un po’ più chiare può aiutare allorché il guazzabuglio interiore deve decantare in una prassi quasi istantanea. Ora abbiamo molto tempo per riflettere. Ognuno nella libertà della propria coscienza.

In un libro importante si trova scritto che “non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. Lì, secondo il mio sentire, l’enfasi è su “la vita”. Ma c’è stato almeno un caso in cui anche gli sconosciuti (persino se mortalmente ostili) sono stati inclusi negli amici: e questo rende quell’amore davvero il più grande che ci sia. Per fortuna, molte persone – oltre ai Medici, agli Infermieri, ai preti – lo hanno testimoniato in questi giorni: e questo allarga il “cuore” e nuovamente lo dilata di stupore e allegria.

Roberto Leonardi

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