Anziché domandare alla sentinella: “Quanto resta della notte ?”, dovremmo piuttosto chiedere: “Quanto manca al sorgere del sole?”. Del resto, si avvicina il Natale nel giorno che i pagani dedicavano al “sol invictus”. La “Settimana Sociale” dello scorso mese di luglio ha davvero impresso, all’area cattolica del nostro Paese, un vigore nuovo e, per molti versi, inaspettato? La “Rete”, che, nata a Trieste, oggi approda a Milano, ha alzato l’asticella delle ambizioni che i cattolici sembrano voler coltivare?
Tra le altre visioni presenti nel discorso pubblico – ammesso che davvero ve ne siano dotate di reale “consistenza” – l’Italia ha bisogno che venga rimessa in campo una cultura sociale, civile e politica ispirata ad un “umanesimo personalista” che, a sua volta, non puo’ che trarre alimento da una concezione cristiana dell’ uomo, della vita e della storia, per sua natura, moderatrice, cioe’ capace della giusta misura, senza essere moderata. Nel contempo, vuol dire, altresì, recuperare la dimensione smarrita della “trascendenza”.
Viviamo in una sorta di bolla temporale sospesa tra due epoche differenti e fatichiamo a denominare questa particolarissima stagione. Evochiamo l’età delle transizioni, delle svolte epocali, della trasformazione necessaria o piuttosto della compiuta secolarizzazione e della cosiddetta “post-modernità”. In effetti, l’ appellativo più appropriato, la cifra che meglio segnala la criticità peculiare dei nostri giorni dovrebbe, piuttosto, essere questa: siamo immersi nel “tempo dell’ avvento”. Viviamo, cioè – a dispetto delle turbolenze e dei conflitti drammatici – nell’attesa di una speranza ancora possibile. Come se agli uomini di buona volontà spettasse il compito di separare dall’assordante, sordo e cacofonico rumore di guerra, una voce sottile, un sospiro quasi indecifrabile che pur invita ad un’attesa.
L’attesa, l’irruzione di una presenza che spiazza la polverosa noia di tutti i giorni e tutto rinnova, dovrebbe accompagnarci dal tempo dell’ avvento liturgico, al tempo dell’avvento nella storia. Andrebbero lette le pagine in cui Francois Jullien, filosofo ateo quanto lettore appassionato del Vangelo di Giovanni, afferma che il cristianesimo, anzi Cristo in persona è l’ unica, vera “novità” che può scuotere e riaccendere la storia. In fondo, l’umanità oggi sembra un Mosè collettivo che, attraversato il deserto, si inerpica su per un versante scosceso fino al crinale del monte Nebo da cui può scorgere quella terra promessa che pur non potrà abitare.
Per certi aspetti, è la condizione che oggi vivono le nostre generazioni. A fronte di processi che dalle migrazioni, alla pervasività della tecnica, dalla crisi ambientale all’ incremento esponenziale della comunicazione, agli effetti indotti della globalizzazione, noi viviamo giorno per giorno o, almeno, per strappi che subentrano gli uni agli altri, ma non colgono l’arco temporale che pur dovremmo dominare d’un sol tratto.
Domenico Galbiati