“Se fosse possibile dire, saltiamo questo giorno ed andiamo direttamente a domani, credo che tutti accetteremmo di farlo. Ma non è possibile. Oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso. Si tratta di vivere il tempo che ci è dato vivere con tutte le sue difficoltà”.
Quarantadue anni fa – eppure sembra ieri tanto è vivo, in molti di noi, il ricordo di quei giorni – Aldo Moro era già nella prigione delle Brigate Rosse e forse aveva già intuito dove inesorabilmente lo conducesse il suo destino, quale fosse – e perché? – il sacrificio che, per mano dei brigatisti, gli veniva chiesto.
Quelle parole sembrano scritte per noi e per oggi, talmente aderiscono, in questi giorni, ai nostri sentimenti e, ad un tempo, evocano la nostra responsabilità. Il ricordo di Aldo Moro, l’incipit della via dolorosa che l’ha condotto alla morte dopo 55 giorni, quest’anno ha un carattere del tutto particolare.
Oggi, come allora, affiorano domande irriducibili, domande sospese tra la vita e la morte, domande ultimative cui non sappiamo dare risposta. Stiamo entrando nella fase piu’ delicata della pandemia, in attesa che la curva dei contagi scollini e vada progressivamente scemando.
Ci sentiamo come se attendessimo, giorno per giorno, sera per sera, una sentenza. Almeno per noi che, subito dopo la Cina, siamo stati investiti dal virus prima di altri Paesi che, probabilmente, stanno entrando ora nella fase che noi abbiamo già vissuto, augurandoci che la possano almeno attenuare, anche avvalendosi della nostra esperienza.
Ad ogni modo, i tempi nostri ed altrui si sovrappongono e prolungano – senza che ad oggi possiamo attendibilmente fare una qualche previsione fondata circa la sua durata complessiva – la stagione proibitiva che ci sta cambiando la vita. La pandemia non è una collezione di “epidemie”, se, per tali, intendiamo processi infettivi su larga scala, ma circoscritti a contesti territoriali delimitati, magari per Paesi singoli e distinti, cosicché si mettono in fila una dopo l’altra, come se da un Paese all’altro ci si passasse di mano in mano il cerino acceso, dopo di che ognuno s’ arrangia per conto suo, magari a scapito dell’altro.
Il biondo con la zazzera che vuol comprarsi il vaccino dai tedeschi in esclusiva, pensa che anche qui valga il suo “America first”, ma non si rende conto che adottando il peggior “isolazionismo” che si conosca, non fa altro che tradire lo spirito e la storia stessa del suo Paese. Se si potesse ridere, verrebbe da dire che la cosa è grave, ma non seria e fa, in qualche modo, il paio con la sortita dell’altro biondo che sta a Londra, compagno di merenda del primo, che sembrerebbe voler offrire sacrifici umani al “dio” della sventura.
La pandemia è un “tutto” che investe ciascuno di noi, contagiato o meno che sia, soprattutto sul piano morale, nel senso proprio del termine, cioè in ordine a valori, criteri, costumi, finalità, priorità della nostra vita. Intanto, da noi il “distanziamento sociale”, destinato a durare a lungo, progressivamente si rivelerà sempre meno agevole da gestire anche sotto il profilo della psicologia individuale e collettiva.
Ciò che stiamo attraversando verrà studiato a lungo e farà testo nella letteratura scientifica del futuro prossimo e meno prossimo. Siamo, infatti, nel pieno di una straordinaria sperimentazione di massa, quale nessuno avrebbe potuto immaginare. Se ne ricaveranno dati ed interpretazioni che in nessun altro modo avremmo potuto conoscere.
Anzitutto, in ordine al sentimento l’umanità ha di sé stessa a questo punto della sua storia. Come si percepisce, come riordina la priorità dei valori, come intravede il domani che la attende, come stanno insieme la presunta onnipotenza della tecnica e la sua fragilità costitutiva.
Forse sotto l’impressione del momento siamo indotti ad esagerare, sicuramente cercheremo in ogni modo di dimenticare, eppure siamo dentro una vicenda destinata a sedimentare nel profondo della memoria e della coscienza collettiva del genere umano. E’ sempre così, ogni qual volta la vita e la morte si guardano direttamente negli occhi.
In fondo, chi invoca la legittimazione del l’eutanasia risponde anche, sia pure inconsciamente, ad una sorta di istinto a correrle in braccio , ad un certo punto, pur di non guardarla in faccia.
Senonché, ora sta lì sospesa a mezz’aria imprendibile e beffarda. In fondo, del resto, la vita e la morte sono più strettamente connesse e l’una necessaria all’altra più di quanto non siano le classiche due facce della stessa medaglia.
“Pulsione di vita” e “pulsione di morte” che si oppongono e si tengono, come ci ha spiegato Freud. Ma forse, ancor più, la stessa biologia.
Domenico Galbiati

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