Quella che segue è la prima parte dell’articolo pubblicato ieri (CLICCA QUI)
Una parola orwelliana, il “populismo” nella stampa corrente
Un esempio tra tanti ? Semplicissimo, una parola usata e abusata in politica, tra le tantissime, è POPULISMO.
Ora il termine POPULISTA come ben sanno gli storici è nato in riferimento non a dei comportamenti o a degli orientamenti assunti entro le istituzioni democratiche, ma rispetto a movimenti politici strutturati. E’ nato, nel XIX secolo, in riferimento ai movimenti contadini nel mondo slavofilo ( dove per popolo si intendevano essenzialmente le masse contadine) e poi è stato usato dagli storici anche in riferimento ai movimenti nazional-comunitari delle masse popolari operaie e lavoratrici dell’ America Latina ( peronismo, castrismo ecc.). E’ stato poi adoperato di recente specialmente dalla politologia in contesti contemporanei per designare un comportamento diffuso di contrapposizione alle èlites dirigenti anche in area europea, per qualificare la semplificazione che riduce il confronto politico alla difesa di idee semplificate ed ai luoghi comuni che operano come norme sociali conformanti, si esprimono per sentenze e, per la loro stessa natura, non ammettono concorrenza o conflitto. Si presuppone una idea di popolo come entità omogenea culturalmente indifferenziata, magari talvolta accomunata da una fede religiosa.
Verrebbe da interrogarsi prima di tutto sul perché sia necessario creare nuove terminologie per definire un fenomeno di degenerazione della democrazia noto già da secoli, in relazione alla democrazia degli antichi. Aveva scritto con grande chiarezza Antonio Rosmini quasi due secoli fa:
“ Vi ha una popolarità che si fa consistere non in dare al popolo delle idee esatte e ben definite, ma in prendere dal popolo le sue stesse idee quali le concepisce, poche, semplici, indefinite, esclusive, imperfette e avvolgendole in un mare di parole e frasi, che hanno l’aria di esser chiare e dir molto mentre non dicono nulla e solo colpiscono l’ immaginazione, ciò che si chiama da essi eloquenza, restituirle alle moltitudini, che come proprie concezioni le amano” ( Antonio Rosmini, Filosofia della politica, 1839) .
Rosmini denuncia qui la prevaricazione delle parole che non dicono nulla, ma che invece servono a colpire, escludere, offendere, rassicurare, fidelizzare e via dicendo. Non è questa di Rosmini una definizione della demagogia 2.0 che oggi vediamo all’opera, che lavora sulla parola-immagine, che usa sempre la parola vuota di contenuto, escludente, banalizzante e semplificante? Potremmo certo chiamare “populismo” anche questo comportamento, ma perché farlo?
La “neolingua escludente”, e la via del dialogo
Ecco, quando definiamo “populista” una forza politica mettendo sullo stesso piano Matteo Salvini, Giuseppe Conte o Benito Mussolini- il termine “populista” è stato impiegato in riferimento a tutti e tre- facciamo una operazione di falsificazione, ovviamente in riferimento a tutti e tre i casi, ivi incluso il caso di Mussolini, sicuramente fascista ma non si capisce perché o in che senso populista.
E’ evidente che il senso di questa operazione linguistica non è quello di costruire una definizione analitica per meglio comprendere una realtà storica. E’ piuttosto la costruzione di una neolingua orwelliana che opera per collegamenti analogici e non argomentati. Che, grazie al suo carattere vago, indeterminato e soprattutto mai chiarito ( cosa intendo davvero per populismo?) consente di accomunare posizioni politiche molto lontane, talvolta opposte, sotto una medesima etichetta che le uniforma e le modella ovviamente sul tipo “peggiore”. Consente di “patologizzare” un fenomeno politico che non ci piace, senza bisogno di addurre alcuna prova o argomentazione. Un po’ come nelle “democrazie popolari” e nel comunismo sovietico, laddove si poteva essere “agenti” del “nemico borghese” senza “agire”, e senza dover far niente, solo sulla base di una analogia particolare o della somiglianza di comportamenti? E come fare una alleanza o come discutere con chi, in qualche modo , può essere apparentato al Duce?
Metodo comodo per distruggere il consenso altrui, per allontanare gli elettori di altri partiti dall’urna elettorale, ma non per accrescere in termini assoluti i propri consensi.
Diverso sarebbe dialogare impiegando non più una definizione orwelliana che tende a squalificare, bensì una definizione analitica che mira a comprendere. E quindi anche a promuovere critica e polemica, ma sempre nell’ambito delle arti umane, del dialogo umanistico, quello che rifiuta le “arti della golpe e quelle del lione”, cioè rifiuta l’astuzia della strumentalizzazione e la forza della intimidazione.
Può esser questa dell’ascolto e della parola liberata la strada per uscire dalla lunghissima notte della nostra repubblica ? Può la gravità della crisi internazionale in atto finalmente aiutarci in questo sforzo necessario? E’ oggi questa una speranza, ma non infondata. Bisogna però tornare a dare importanza all’ascolto, alla parola, al senso della realtà, alla ricerca dialogica della verità nelle relazioni tra le persone e tra i popoli.
Umberto Baldocchi