Se volessimo affiancare ad una immagine classica un’ altra tipica della nostra modernità, potremmo dire che una volta scoperchiato il vaso di Pandora, farvi rientrare tutti i mali sparsi attorno è impossibile quanto rimettere il dentifricio nel tubetto. E’ un po’ quel che succede al nostro Paese, grazie a Conte ed ai 5 Stelle.

Comunque la si aggiusti o meno, resti Draghi oppure no, torni o meno dopo le prossime elezioni politiche, si voti ad ottobre oppure in primavera, anziché insistere nel dribbling quotidiano fino ad incespicare nei propri stessi piedi, bisognerebbe giocare a testa alta come sanno fare solo i migliori centrocampisti. Adottare, cioè, una visione prospettica delle questioni come sono disposte in campo e, magari, con un traversone cambiare decisamente il gioco, spostandolo in tutt’altra zona del rettangolo verde.

Si tratta di capire se il sistema bipolare vigente, i partiti che vi concorrono – messi peggio, all’ interno di ciascuno e nelle rispettive relazioni di “polo”, che non quando nacque il Governo in carica – anziché insistere nel reciproco gioco di interdizione, l’unico in cui si esercitano da tempo immemorabile, siano in grado o meno di togliere l’assedio al popolo italiano e, con un atto di fiducia, riconsegnargli il futuro del Paese. E’ necessario chiarire questo punto ed il resto ne consegue.

Siamo in presenza di una classe politica che, secondo un tacito patto di reciproca tutela tra le due parti che la incarnano, costringe gli elettori – quelli che restano – ad arroccarsi attorno all’uno o all’altro dei due schieramenti.
I quali altro non concepiscono se non una relazione di contrapposizione polare. Il fatto che, quando il confronto elettorale giunge al “rush” finale, dall’una e dall’altra parte si invochi il cosiddetto “voto utile”- e con ciò si metta in campo un sottile ricatto – sta ad indicare come, in ultima istanza, si solleciti il consenso sostanzialmente in ragione di un mero atteggiamento oppositivo alla parte avversa.

Cioè il voto è sempre declinato in negativo, come atto difensivo nei confronti di quel tanto peggio che può venire dall’altra parte, piuttosto che a motivo della qualità della proposta politica cui pure si aderisce. Ne discende che l’impostazione politico-programmatica di ciascuna delle due parti si pone come una sorta di ”totem”, un riferimento che – per quanto rivestito da una sorta di “aura” sacrale – viene sostanzialmente derubricato ad un livello nominale. Che si chiamino “destra” oppure “sinistra”, i due totem sono sì differenti per quanto concerne l’orientamento originario, ma finiscono, paradossalmente, per omologarsi sul piano del metodo e ad impedire la definizione di un’identità che sia chiara e comprensibile.

In secondo luogo, nella misura in cui il loro impianto programmatico, pur difforme sul piano di molti contenuti – a cominciare da quelli fondamentali relativi all’Europa ed alla collocazione internazionale del Paese – non risponde ad una visione strutturata ed organica del divenire del mondo, cioè ad un progetto, ma piuttosto ad una somma di istanze, che attengono ad una preoccupazione più elettorale e contingente che non sistemica e mirata all’ interesse generale del Paese. Insomma, più che di coalizioni politico-programmatiche, si tratta di aggregati elettorali, funzionali ad una ragione di potere, non chiaramente definita sul piano delle categorie fondamentali cui ispirare lo sviluppo della vita civile del Paese.

E’ ancora possibile invertire la rotta di una tale deriva? Con quali risorse? Attingendo a quale fonte? Intanto, c’è da chiedersi se serva entrare nella spirale di questo gioco che oggi trova, nella rincorsa al cosiddetto “centro”, una variabile sul tema che non contraddice affatto lo spartito della sinfonia, così come ce la propinano ormai da decenni.
Il Paese ha bisogno di un aspirante commensale in più o piuttosto di chi ponga o almeno solleciti quel “momento di verità” di cui ha tanto più bisogno, quanto maggiormente gli viene negato? La fonte cui attingere è il Paese stesso, quelle mille risorse locali, culturali, nascoste nelle pieghe di un pluralismo rigoglioso, ancora ricco di energie solidali purché si sappia valorizzarle.

E’ necessario pensare ad un programma politico che si orienti in tal senso. Ad esempio – ma è solo una prima indicazione, su cui tornare – perché’ non puntare su una nuova valorizzazione dei Comuni, ad esempio, dotandoli di un’effettiva e forte autonomia impositiva, attribuendo alle loro casse le imposte sugli immobili, sia pure con le opportune misure di perequazione? Abbiamo bisogno non di riassorbire i livelli istituzionali locali nelle logiche sistemiche e nazionali – come succede quando sull’esito elettorale di una singola città, si scaricano predizioni poco fondate di carattere generale – ma piuttosto di far crescere, dalla radice profonda del popolo italiano, una nuova, più ampia, più libera ed articolata classe dirigente.

Domenico Galbiati

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