Ruffini: “Siamo tutti in campo”
Siamo arrivati al 18 gennaio. Nelle scorse settimane c’era
molta attesa. Troppa forse. Due diversi incontri. Milano e
Orvieto. Un terzo incontro anche a Brescia. Tutti e tre oggi.
Per una ragione. Il 18 gennaio è una data certamente
evocativa. Almeno per qualcuno. Certamente per noi.
Per chi senza inseguire la cultura delle esagerazioni, cerca
almeno di coltivare la memoria. E con essa preparare il
futuro.
Era il 18 gennaio 1919 quando Sturzo lanciò il suo appello
ai liberi e forti. Tante cose ci inducono a ricordare. Ma allo
stesso tempo, il 18 gennaio è un giorno come un altro. Che
ci chiede solo di essere vissuto. Una data che si ripeterà
anche il prossimo anno e quelli a venire.
Domani sarà il 19, poi il 20 gennaio e così via. Perché la
storia continua. Sempre. E il futuro si costruisce così. Passo
dopo passo. Guardando avanti. Liberi dagli schemi, forti
delle idee.
Forse qualcuno aspettava di trovare oggi annunci di
soluzioni già pronte di fronte a una realtà tanto complessa.
Ma questo, lo sappiamo, non è possibile. Non esiste una
storia che possa essere scritta così.
Quanto alle identità…Vedo in una certa narrazione il rischio
di ridurle quasi ad una caricatura. Ma anche esse sono
complesse. Non possiamo ridurre l’identità di ciascuno di
noi all’interno di una cornice rigida, circoscritta, fissa.
Specialmente oggi, in un periodo storico in cui si
costruiscono etichette solo per ritagliarsi spazi di visibilità e
potere; o peggio per etichettare e colpire gli altri.
Le etichette sono solo un modo per non aprire gli occhi di
fronte a una realtà sempre più complessa, che chiede
invece di essere guardata in profondità per essere
compresa.
Nessuna identità è immobile. Altrimenti muore. Anzi è già
morta. Così anche la democrazia non è un verbo da
declinare al passato. Ma qualcosa in divenire, come un
gerundio che può compiersi solamente con l’impegno di
ognuno. Con la partecipazione attiva, consapevole e più
diffusa possibile.
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Ecco perché quando sono stato invitato a partecipare, ho
anticipato che sarei venuto:
– Non per parlare di me, o di un partito.
– Tantomeno di una corrente di questo o quel partito.
– Neanche per capire in quanti si riconoscono in un partito.
– Né, a maggior ragione, per contare quanti si rispecchino
in una corrente.
– Neppure per parlare di un posizionamento in uno spazio
geometrico astratto come il “Centro”.
– Ancor meno per discutere di come ritagliarsi uno spazio
come partito o corrente sotto l’insegna della religione
cattolica.
– Chi si professa cattolico sa perfettamente di essere
chiamato (insieme ad altre culture) a essere sale e lievito
della società. Ingredienti di cui si può sentire la mancanza,
quando non ci sono, ma che certamente non devono
coprire i sapori degli altri ingredienti. Sono chiamati ad
esaltarli, non a coprirli. Un piatto non potrà mai essere
assaporato e ricordato per il sale o il lievito. Ma sarà
ricordato certamente per la loro assenza.
– Del resto, “partito” e “cattolico” possono persino essere
considerati due concetti in contraddizione tra loro. Uno
definisce la parte; l’altro l’universalità.
– Pietro Scoppola scriveva che “la maturità del
cattolicesimo dei politici italiani si misurerà proprio sulla
capacità di abbandonare la nostalgia per un proprio
partito esclusivo, e lavorare piuttosto per…la democrazia
di tutti”.
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Bene, fin qui ho fatto l’elenco di tutto quello che – almeno
secondo me – noi non siamo e che non vogliamo. Ho detto
tutto quello che avevo pensato non avrei nemmeno dovuto
dire. E allora qualcuno mi potrebbe domandare che cosa
sei venuto a fare. Ecco, la mia risposta è che sono venuto –
da semplice cittadino – a parlare di politica.
– Anzi di Paese.
– Perché cos’altro è la politica se non l’avere a cuore il
Paese. E quindi tutti.
– Esiste il Paese in cui viviamo e in cui siamo chiamati ad
agire.
– Esiste la ricerca del bene comune. Realmente comune a
tutti.
– Esiste il contesto globale in cui il nostro Paese è inserito e
in cui l’Italia ha un ruolo importante da giocare.
Del resto, non era forse questo l’invito di Sturzo in quel
lontano 18 gennaio: “cooperare ai fini superiori della Patria,
senza pregiudizi né preconcetti”.
Se è vero che il nostro Paese appartiene a tutti, allora tutti
siamo sempre chiamati a occuparcene, nel tempo e nel
luogo in cui ci troviamo.
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Quel che abbiamo letto sui giornali nelle scorse settimane –
anche dopo la mia uscita dall’Agenzia delle entrate –
sembra essere l’espressione di un interesse a capire il “chi”
e non il “cosa” o il “perché”. Ormai siamo abituati a
interessarci solo al “chi”, siamo assuefatti ai talent show e
alle nomination. Siamo rassegnati all’idea di Paesi o di
democrazie che possano essere salvati solo da una
persona o da un nome. Senza neanche aver chiara quale
sia l’idea di Paese che quella persona abbia in mente.
Senza aver mai davvero trovato un modo per discuterne.
Insieme.
Mentre la politica è un impegno da prendere seriamente.
Non è l’illusoria promessa che un futuro migliore possa
arrivare comunque e senza fatica. E neanche il cinico
realismo di chi crede che ormai nulla si possa almeno
provare a fare. Non è il miope egoismo di un ceto politico
interessato solo alla sopravvivenza. È un impegno
lungimirante che deve tener conto delle curve della
democrazia, dei suoi tempi per ascoltare diverse voci,
considerato che nessuno è depositario di verità. Non un
impegno preso per una solta volta. Non la vetrina di
qualcuno per un giorno. Non un appuntamento riuscito più
o meno bene, di cui si possono occupare i giornali.
Il confronto non può essere affrontato come si fa con la
dieta: la si inizia il lunedì, ma già dal martedì si pensa ad
altro. Perché la politica non dipende mai da un buon inizio,
anche se con le migliori intenzioni. È impegno di ogni
giorno. Perché si è cittadini ogni giorno.
La politica non la si fa per forza di inerzia. Si fa attraverso
decisioni chiare, precise, trasparenti e, specialmente,
condivise. È questo l’unico modo per riportare le persone al
voto. E per esprimere leadership condivise.
Nel leggere i giornali, le reazioni a incontri come questo
testimoniano invece un modo singolare di osservare e
raccontare la politica. Secondo schemi già vecchi. Ma
esiste anche un altro modo. Che non vede la politica come
un opaco gioco di potere riservato a pochi. Che allarga lo
sguardo. Che vede anche chi non c’è. Vede…
– Chi ha smesso di esserci.
– Chi ha perso fiducia nella politica.
Vede…
– Tutti quelli che potrebbero esserci ancora.
– Tutti quelli che hanno smesso di votare.
– Tutti quelli che hanno rinunciato a partecipare alla
costruzione di un futuro migliore per questo Paese.
– Tutti quelli che sono rassegnati per l’assenza di una
politica che offra realmente una visione di Paese di futuro e
non un elenco di offerte.
La prima responsabilità di chi si impegna in politica è quella
di riportare alla partecipazione e al voto chi non c’è più. A
partire dalle nuove generazioni di giovani che non si sono
mai avvicinati, che non hanno mai votato e non intendono
nemmeno farlo.
La politica non può ridursi a una conta di voti e percentuali;
tanto meno alla conta solo di chi c’è ancora. Non può
escludere dal gioco democratico, dal confronto culturale e
sociale, la metà di chi avrebbe diritto a essere protagonista.
In democrazia la politica è il campo di tutti.
È quando le democrazie si corrompono che il campo si
restringe sempre di più e la politica diventa gestione opaca
del potere.
La buona politica si nutre dell’impegno a coinvolgere anche
chi non c’è. Un dovere, questo, ancora più grande per chi si
riconosce nell’eredità del cattolicesimo
democratico. Per chi si riconosce nella definizione della
politica come la più alta forma di carità e non come il più
basso e trasformista esercizio del potere.
Sentire questo dovere non è una questione di buoni
sentimenti. Ma avvertire l’esigenza vitale di costruire non
un’operazione di cosmesi, ma un’agenda politica seria,
condivisa, diversa, generosa e aperta. Avere la
consapevolezza che per farlo occorre confrontarsi proprio
con quella metà di Paese che ha rinunciato a credere che la
politica possa offrire risposte.
Non si tratta di costruire nuovi partiti o nuove aree
all’interno di un partito. Si tratta di coinvolgere insieme
nuovi elettori. Andando a cercarli in quella metà di
popolazione che ha smesso di affidare alla politica le
proprie speranze. Strappandoli via da quell’astensionismo
che è diventato la più grande forza politica del Paese se
solo trovasse il modo di essere coinvolta in un processo, in
un cammino.
Discutere su come si coinvolgono i cittadini – che sono i
veri attori protagonisti della storia di questo Paese – è il
primo passo per fare politica. Avviare una discussione
realmente aperta per ricevere idee e proposte da chiunque
voglia partecipare. Questa è la sfida delle democrazie in
crisi. Ricominciare. Iniziare dal basso, non dall’alto.
Riattivare la partecipazione di tutti. Aprire canali di dialogo
per parlare di tutto quello che non trova più spazio di
ascolto nei partiti.
Esistono già, a livello locale, esperienze che ci dicono che è
possibile. Amministratori, sindaci che interpretano questo
modo di fare politica. Liste civiche che hanno riattivato
l’entusiasmo e la partecipazione dei cittadini. Il bene
comune è troppo importante per ridurlo a una sfida tra
persone per trovare chi meglio incarna (magari per lo spazio
di un mattino) il ruolo di salvatore della Patria o di uno
schieramento.
È la pluralità il sale della democrazia. Più teste pensanti ci
sono e più è probabile che emergano le soluzioni migliori.
La democrazia è un telaio dove possono, anzi devono poter
convivere i fili dei diversi colori chiamati a tessere la tela del
nostro Paese. Nessuno ha la risposta esatta in tasca, la
ricetta perfetta per risolvere tutte le questioni e i problemi
che ogni giorno affrontiamo come comunità.
E, se anche qualcuno l’avesse, quella ricetta avrebbe un
difetto che la renderebbe di fatto inutilizzabile: non essere
stata prima pazientemente condivisa con gli altri.
Se una ricetta viene calata dall’alto è difficile che qualcuno
vi si possa riconoscere.
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Oggi, qui è riunita una parte importante dell’eredità del
cattolicesimo democratico. La domanda che ci si dovrebbe
porre è qual è l’ingrediente che oggi un cattolico può
portare nella politica. Cosa contraddistingue un cristiano
che si impegna in politica? Qual è il dovere dei cristiani che
camminano nella storia? Sicuramente è il loro modo di
vedere nel prossimo non un nemico da abbattere, ma un
interlocutore per costruire insieme il futuro di una comunità,
di un Paese.
Perché non c’è salvezza senza corresponsabilità. Ecco
perché non si deve aver paura di tornare a usare parole che
oggi sembrano lontane dalla politica per uscire dalla
mediocrità di un linguaggio grigio e stereotipato. Per fare un
nuovo vino da mettere in botti nuove. “Escludere cose
mediocri, per fare posto a cose grandi”, come diceva il
Presidente Aldo Moro.
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Ora, lo dico con il massimo rispetto, come possiamo tutti
insieme uscire dalla mediocrità della politica? Qual è lo
stato di avanzamento delle proposte alternative in campo?
E nel campo delle opposizioni, qual è la proposta politica
della sinistra? Qual è l’offerta, realmente competitiva che
offre la sinistra? Dove è stata discussa? Con chi? Quando?
Non singole questioni, non emendamenti a soluzioni
elaborate da altri. Ma una speranza sul futuro di questo
Paese. Una visione larga, condivisa che è la sola a poter
riportare la gente al voto.
Da elettore di centro-sinistra, mi sembra che tanto ancora si
possa fare, ed elaborare, per offrire una proposta politica
forte e convincente. Abbiamo tanto da dire e tanto da
ascoltare su come le democrazie possono affrontare la crisi
economica e climatica. Tanto da dire e da ascoltare sulla
questione giovanile e sul necessario e insostituibile
protagonismo dei giovani; sulla politica del lavoro; sulla
politica industriale, sul fenomeno delle migrazioni e dello
spopolamento delle aree interne; sulla globalizzazione e
sulla rinascita dei nazionalismi, sull’esplosione della civiltà
digitale e sulla sfida della intelligenza artificiale; sulla difesa
della libertà e sul falso mito della post verità; sulla tutela
della salute; sulla difesa della libertà di informazione e di
manifestazione del pensiero; sulla equità fiscale; sulla
amministrazione della giustizia; sulla ricerca della pace e
sulla realtà di nuove forme di guerra, sulla privatizzazione
della conoscenza, sulla crisi della educazione; sul ruolo
delle donne e sul modo in cui la politica può abbandonare
un certo persistente maschilismo mascherato che riemerge.
Abbiamo bisogno di riaprire un cantiere di idee. Non
dobbiamo e non possiamo lasciarci confinare nel campo di
una politica intesa come recita a soggetto di attori
comprimari; semplicemente tesi a difendere la loro parte in
commedia. Serve più generosità. Serve mettersi in
discussione. Sta a ognuno di noi sentirsi protagonista attivo
di una sfida più grande, impegnati tutti a declinare
un’offerta politica alta. Sta a ognuno di noi avere
l’ambizione di essere non numeri primi, ma numeri due per
costruire insieme una proposta condivisa.
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La domanda, oggi, è d’obbligo. Chi sono, oggi, i liberi e i
forti ai quali si rivolgerebbe Sturzo? Liberi da cosa? Forti di
cosa e per fare cosa? Di cosa ha bisogno oggi la nostra
democrazia? Di certo non ha bisogno di sedicenti superuomini, ma di cittadini liberi che ritrovino l’entusiasmo di
partecipare. E di una classe politica capace di accoglierli
con generosità.
Possono sembrare concetti astratti, parole vuote e
romantiche. Ma non lo sono. La crisi della democrazia non
è una cosa astratta. È legata a visioni del mondo e del
potere che non mettono la persona al centro. Il tema di
fondo della politica e della democrazia è come legare il
rispetto della persona con l’efficienza.
Oggi la persona rimane sullo sfondo, messa nell’angolo
come Davide di fronte a novelli Golia; apparentemente
destinata alla sconfitta di fronte a paradigmi tecnoefficientisti di dominio e di possesso che di fatto
mortificano libertà e verità in cambio di una pseudoefficienza del tutto illiberale.
Qual è il ruolo della politica di fronte a chi può piegare a suo
piacimento le reti di comunicazione mondiale avvelenando i
pozzi di un’informazione libera e consapevole?
La crisi della democrazia è reale quando assistiamo alla
silenziosa instaurazione di un modello neofeudale dove ci
sono feudatari che scatenano i loro vassalli per difendere i
loro privilegi. Essere spettatori, a maggior ragione in
un’epoca come quella attuale, è un lusso che
non ci possiamo permettere.
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Sabato scorso abbiamo ricordato un amico di cui oggi si
sente in particolar modo la mancanza: David Sassoli.
Quanto mancano le sue intuizioni! Il suo ripetere che il
valore della persona e la sua dignità sono il nostro modo
per misurare le nostre politiche. David è stato fondamentale
nella costruzione di quella che viene chiamata la
maggioranza Ursula che ormai da due legislature governa
l’Europa. Forse, se ci fosse ancora lui, ci farebbe riflettere
su come quella maggioranza nata in un momento di
necessità potrebbe diventare una scelta solida per essere
alternativi alla destra.
Alternativi. Perché, come si diceva molti anni fa, se vinci
con la destra è la destra che vince! Senza essere nemici,
ma alla destra noi si deve essere alternativi! Alternativi con
una scelta politica chiara precisa vera condivisa; fondata su
una assunzione di responsabilità. Su una scelta di civiltà.
Di David mancano anche le parole. Ecco, lui ci ha insegnato
ad aver cura delle parole e a non aver paura delle belle
parole anche quando sono ritenute scandalose da chi non è
pronto a mettersi in discussione. Ne ricordo in particolare
due, che sembrano poco politiche e in realtà descrivono
una politica: amicizia e amore.
Troppo facile amare gli amici, ma è con gli avversari che
occorre confrontarsi; con le persone diverse da noi; con
quelle che ci sembrano distanti dal nostro modo di pensare,
a volte anche dalla nostra storia. Chi si scandalizza di fronte
a queste parole forse ha dimenticato chi è.
Per essere creduti bisogna essere credibili. E per essere
credibili non possiamo tagliare le nostre radici. Ecco, allora,
chi siamo? Quale è la nostra storia? Per risponderci, non
dimentichiamo le parole di Rosario Livatino: alla fine dei
nostri giorni la domanda che ci sarà posta non è se siamo
stati credenti, ma se siamo stati credibili.
Milano, 18 gennaio 2025