E’ morto John Hume. Cattolico nord irlandese e Premio Nobel per la Pace. Il riconoscimento gli giunse per il suo lungo, tenace e discreto impegno per la pacificazione dell’Ulster e la fine della sanguinosa guerra che, in circa 30 anni, dalla fine degli anni ’60 a quella dei ’90, ha fatto oltre tremila vittime.

La scia di sangue non ha risparmiato neppure Londra. Tante sono state le bombe fatte esplodere o minacciosamente piazzate, e fatte ritrovare con provvidenziali telefonate d’avvertimento, nelle strade della metropoli britannica. Molti e clamorosi gli attentati contro uomini della polizia e dell’esercito organizzati nella stessa capitale britannica, culminati con il lancio di un colpo di mortaio contro la sede del Primo ministro di Downing Street. Ha lambito persino la casa reale il giorno in cui trovò la morte nel 1979 lord Mountbatten, cugino della regina Elisabetta, nell’esplosione di una bomba collocata nel suo panfilo nel mare della Repubblica d’Irlanda.

Furono trent’anni di violenza settaria di cui nessuno, per lungo tempo, riusciva a vedere la fine. Fino a quando uomini come Hume ce l’hanno fatta perché hanno avuto la tenacia e la costanza nell’indicare una diversa soluzione ad una situazione sfuggita di mano un po’ a tutti. Ai maggiorenti delle due comunità rivali ed anche al governo di Londra.

Lo conobbi e lo intervistai in una stanza del Parlamento di Westminster. Mi colpì subito per il suo fare dimesso, ma che faceva intravedere una solidità umana e politica che non abbisognava di orpelli, forte com’era di un’intelligenza positiva e tranquilla. Si disse subito un po’ “rintronato” perché la sera prima aveva bevuto troppo. ” Sa com’è?”, disse quasi sopra pensiero prima di squadrarmi sornione e provare a capire con chi avesse a che fare. Quel “sa com’è?”, e il suo squadrare discreto, ma determinato, questo però lo capii molto dopo, costituivano la sua sostanza. Ciò che, tra visionarietà e realismo, lo portò al Premio Nobel più prestigioso.

L’immagine di Hume mi è rimasta sempre molto nitida perché l’incontro con lui faceva parte di una serie d’interviste organizzate con esponenti di una parte e dell’altra, tra cui il reverendo protestante Ian Paisley, per decenni vero e proprio agitatore politico e, poi, capo del partito degli Unionisti nord irlandesi. Uomo che interpretò a lungo l’immagine della violenza che si contrappone ad altra violenza. Fu violento anche con me ad un certo punto dell’intervista quando non gradì la domanda su come si potesse conciliare la fede cristiana con la violenza politica. Irridente, si rivolse a chi l’accompagnava e disse: ” Ma guarda un po’ cosa mi chiede questo giornalista “papista” che viene da Roma…”. Ovviamente gli spiegai con molta calma che non lavoravo per l’Osservatore romano, ma per la televisione italiana.

Intervistai anche Gerard Adams che costituiva la faccia pubblica e politica dell’Ira perché capo dello Sinn Fein. Lo incontrai nei ghetti cattolici di Belfast dopo lunghi giorni di trattativa e, ovviamente, in un luogo che mi venne comunicato all’ultimo momento. Mi ricordo che entrammo in una casa e passammo in un’altra. Sembrava di essere in un film di spionaggio con tanto di uomini di guardia e sguardi sospetti. Forse nell’allora capo politico ufficiale dello Sinn Fein trovai meno rozzezza di quella strabordante in Paisley, ma stesso atteggiamento di chiusura totale verso ogni ipotesi di compromesso. Provò a fare finta di nulla, ma fu evidente l’irritazione quando gli chiesi dell’ennesima, aperta e ferma condanna dell’uso della violenza da parte dell’Ira venuta dal vescovo di Derry, Londonerry per i protestanti, Edward Kevin Daly, nel periodo più drammatico del conflitto, agli inizi degli anni ’90.

Daly stava sicuramente dalla parte della vessata minoranza cattolica, ma non aveva mai condiviso il settarismo dei terroristi e dei politici loro espressione. Era invece molto legato a Hume del quale condivideva anche la presa di distanza da quella visione ideologica molto presente nell’Ira che era d’impronta marxista.

Il conflitto nord irlandese, infatti, non può essere considerato solo fatto di contrapposizione religiosa. I motivi profondi, vanno ricondotti, infatti, a questioni etniche e sociali. La spartizione successiva al 1922, che faceva nascere la Repubblica d’Irlanda e lasciava sotto il controllo di Londra le sei contee dell’Irlanda del Nord, portava già in se i germi di quello che sarebbe poi esploso con le violenze del 1969 e, soprattutto, con  il Bloody Sunday, del 1972 che dette via libera alla Provisional Ira nata per il rifiuto della tregua accettata dalla cosiddetta Official Ira.

La fase più acuta dello scontro tra maggioranza protestante e minoranza cattolica s’inserisce nella grave crisi economica che il Regno Unito ha vissuto negli anni ’70 e che nell’Ulster è stata ancora resa più acuta dalla fine dei cantieri di Belfast, quelli che costruirono il Titanic e tanti altri transatlantici quando ancora il traffico aereo non portava una seria alternativa a quello navale, soprattutto tra le due sponde dell’Atlantico. Pertanto, due sottoproletariati scelsero la via delle armi: quello dei cattolici, già messi ai margini in un quadro economico e sociale difficile, e quello dei protestanti che rispondevano alla violenza dell’Ira con altrettanto spargimento di sangue. Il degrado socio economico finiva per lasciare le sei contee del nord Irlanda in preda al settarismo il quale, a sua volta, rendeva impossibile godere degli stessi vantaggi che il resto del Regno Unito, particolarmente Londra e la vecchia Inghilterra, otteneva dalle trasformazioni nel frattempo intervenute e dalla scoperta ed utilizzazione del petrolio del Mare del Nord.

Era dunque evidente che quel “sa, com’é” di Hume trasportato sul piano politico significava il constatare che il sanguinoso conflitto non potesse essere risolto per linee interne e, in quanto tale, vista la radicalizzazione della contrapposizione divenuta un qualcosa che aveva assunto più il carattere della faida piuttosto che della competizione tra etnie. Bisognava allora sfruttare altri elementi in qualche modo esterni. Questi elementi giunsero con il cambio di governo a Londra, a seguito della vittoria di Tony Blair; con la determinazione ad intervenire per la pacificazione da parte degli ambienti statunitensi molto vicini alla comunità irlandese, profondamente colpiti dal livello di crudeltà raggiunta da entrambe le fazioni nella terra degli avi, e che voce di popolo circolante tra i cattolici di Belfast e di Derry diceva fossero giunti alla determinazione di impedire la raccolta di fondi a favore dell’Ira negli Stati Uniti; con i piani avviati dall’Europa a favore delle aree più depresse per quella che si chiamava e si chiama politica di coesione.

A questo punto, ci volevano gli uomini capaci di utilizzare tutto ciò e costruire un percorso completamente diverso. Umo di questi fu certamente John Hume che merita, dunque, di essere ricordato tra i grandi del cattolicesimo politico europeo e, senza tema di smentita, essere messo alla pari di personaggi come Adenauer, Kohl, De Gasperi e Scuman. Uomini dalla ferma ispirazione cristiana. realisti e visionari al tempo stesso. Coraggiosi nel sostenere la propria idealità, ma con la capacità di declinarla nel momento opportuno, con i gesti adeguati.

Giancarlo Infante

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