Negli ultimi decenni si è affermata, nel foro pubblico, una tesi secondo cui l’Italia sarebbe stata storicamente una nazione pacifica, restia a impegnarsi in conflitti militari e tradizionalmente non guerrafondaia. Questo racconto, oggi rilanciato da forze politiche come la Lega, una parte della sinistra e dal movimento pacifista, viene spesso utilizzato per giustificare l’opposizione al riarmo italiano ed europeo, specialmente in risposta alle minacce provenienti dalla Russia e all’incertezza sul futuro della NATO. Un Patto atlantico, ormai, sempre più in bilico dopo le dichiarazioni di Donald Trump sulla possibilità di un progressivo disimpegno americano. Tuttavia, una lettura più attenta della storia italiana, dall’Unità fino al Novecento, mostra come questa presunta vocazione pacifista sia più un mito che una realtà.

Il Regno d’Italia e la corsa agli armamenti

Dopo l’unificazione del 1861, il neonato Regno d’Italia si trovò a dover consolidare i propri confini e affrontare le tensioni interne ed esterne. I Savoia e l’apparato militare del nuovo Stato avviarono un’intensa corsa agli armamenti, consapevoli della necessità di proteggere il territorio nazionale e di completare l’unità con l’annessione delle terre irredente: Trento, Trieste e altre aree sotto il dominio austro-ungarico. Questa strategia fu in parte dettata dal timore di possibili attacchi esterni, ma anche dall’ambizione di rafforzare il prestigio internazionale dell’Italia. La politica estera italiana, soprattutto sotto Francesco Crispi, fu tutt’altro che pacifista. L’Italia si inserì nella competizione coloniale europea, avviando la conquista di territori in Africa, tra cui Eritrea e Somalia. La disfatta di Adua nel 1896 segnò un brusco stop, ma non fermò la volontà espansionistica. Giolitti, pur avendo una politica più prudente, diede comunque il via alla guerra italo-turca del 1911-1912, che portò alla conquista della Libia. E’ noto che durante questo periodo, l’Italia intraprese una significativa  espansione e modernizzazione delle proprie forze armate, in linea con le politiche coloniali e  con le  aspirazioni imperiali dell’epoca. Ad esempio la Marina Militare italiana varò navi da guerra innovative come quelle della Classe Italia, che per diversi anni  furono tra le più grandi e veloci del mondo.

La Prima guerra mondiale e il mito dell’Italia riluttante alla guerra

Anche l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale nel 1915 smentisce il mito della nazione pacifica. Sebbene il paese fosse inizialmente neutrale, la decisione di intervenire al fianco dell’Intesa fu motivata da un calcolo geopolitico: ottenere i territori promessi dal Patto di Londra e affermarsi come potenza europea. L’esercito italiano affrontò un conflitto durissimo, culminato nella disfatta di Caporetto, ma anche nella vittoria finale del 1918, che portò all’annessione del Trentino-Alto Adige, della Venezia Giulia e dell’Istria. Dopo la guerra, il nazionalismo crebbe, alimentando il mito della “vittoria mutilata” e preparando il terreno per l’ascesa del fascismo.

Il fascismo e la debolezza del riarmo

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il regime fascista, pur facendo della guerra e della gloria imperiale una parte fondamentale della propria propaganda, non fu all’altezza delle ambizioni militari che proclamava. Mussolini condusse l’Italia in una serie di guerre, dalla conquista dell’Etiopia (1935-1936) alla partecipazione alla guerra civile spagnola, fino all’entrata nella Seconda guerra mondiale nel 1940. Tuttavia, le forze armate italiane erano male equipaggiate, con armamenti obsoleti e una logistica inadeguata. Il regime non investì in modo efficace nella modernizzazione dell’apparato bellico, rendendo l’Italia impreparata ad affrontare un conflitto globale.

La narrazione pacifista e la sfida del presente

Dopo la Seconda guerra mondiale, la Costituzione repubblicana sancì il ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali (articolo 11). Tuttavia, questo principio non significa neutralità assoluta o rifiuto della difesa nazionale e collettiva. L’Italia ha partecipato a numerose missioni internazionali di peacekeeping e ha mantenuto un esercito integrato nel sistema NATO. Oggi, di fronte alla minaccia russa e all’incertezza sulla posizione degli Stati Uniti, l’Europa si trova di fronte a una scelta cruciale: dotarsi di una difesa autonoma oppure restare vulnerabile a nuove aggressioni. L’idea che l’Italia debba rimanere disarmata o ridurre le spese militari appare anacronistica e pericolosa. La posizione della Lega, di una parte della sinistra e dei movimenti pacifisti, che si oppongono a un riarmo europeo, sembra non tenere conto delle lezioni della storia. Un’Europa incapace di difendersi da sola rischia di diventare ostaggio delle potenze esterne, siano esse la Russia, la Cina o persino un’America isolazionista sotto una futura amministrazione Trump. La storia dimostra che l’Italia non è stata sempre pacifista, o quantomeno non lo è mai stata in senso assoluto. Dal Risorgimento alla Prima guerra mondiale, passando per l’epoca coloniale, il paese ha investito in una politica di potenza, con alterne fortune. Il vero errore storico è stato semmai il contrario: non aver saputo adeguare la propria difesa ai tempi, come accadde sotto il fascismo. Oggi, in un mondo sempre più instabile, l’Italia e l’Europa non possono permettersi il lusso dell’ingenuità. Investire nella difesa non significa essere guerrafondai, ma semplicemente realisti. E la storia insegna che chi si disarma diventa inevitabilmente una facile preda di chi, al contrario, si arma.

Michele Rutigliano

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