Sosteneva Mino Martinazzoli che la politica è importante, ma più importante è la vita. Tra l’una e l’altra delle due c’è, dunque, un ordine di priorità, ma, nel contempo, una relazione necessaria ed irrevocabile. Rinviano l’una all’altra.

Se sapessimo ricondurre la politica alla spontaneità originaria della vita, ne riscopriremmo la bellezza. Ed altrettanto succederebbe se riportassimo la vita alla politica, se, cioè, arricchissimo la vita di ognuno di una prospettiva che va oltre le ristrettezze dell’ “io”, investe la collettività, apre nuovi orizzonti di libertà personale e di responsabilità, riaccendendo, in tal modo, una passione. Vorrebbe dire sottrarre la politica alle secche di un individualismo sgranato e riaprirla a quella dimensione “popolare” di cui, costitutivamente, non può fare a meno.

E’ arduo, oggi, parlare di “bellezza della politica”, probabilmente addirittura azzardato, eppure è necessario. Forse vale anche per la politica quello che eminenti scienziati sostengono a proposito delle scienze esatte: una teoria bella, così come belle appaiono le equazioni che ne danno conto, ha un’alta probabilità di essere vera e buona. Insomma, un trascendentale trascina con sé gli altri.

Una politica “bella”, capace di riacquisire ed esercitare la funzione che le appartiene, è fatta dalla mente ed, insieme, da cuore, dall’ umiltà dell’ ascolto, dal coraggio della responsabilità personale, dalla schiettezza del prendere posizione, da quella facoltà di discernimento in cui si compendiano capacità critica ed autonomia di giudizio, dall’esercizio pacato e fermo della propria libertà ed anche da quel po’ di autoironia che consente un certo distacco da sé e quella gratuità del proprio impegno, che sono, in ogni caso, necessari. E’ fatta anche dalla capacità di trarre, dalla lezione della storia, la facoltà di coltivare una visione, oltre il contingente, trafiggere – si potrebbe dire – con il proprio sguarda il tempo ed intuire quelle linee di penetrazione che, fin d’ora, ne anticipano le possibili evoluzioni. E’ fatta da una incontrovertibile vocazione alla libertà di ognuno ed alla giustizia per tutti.

Dalla “bellezza” della politica deve trarre alimento quel processo di necessaria “trasformazione” del Paese e del suo sistema politico di cui parla il nostro Manifesto fondativo del novembre 2019 (CLICCA QUI) e che, su queste pagine, è stato spesso invocato. Si tratta di un concetto caro a Stefano Zamagni che sostiene l’insufficienza del classico riformismo, a fronte di una condizione complessiva del nostro momento storico tale da esigere una più radicale capacità di orientare gli sviluppi del nostro contesto civile. E’ necessario, in altri termini, affrontare una riconsiderazione delle categorie culturali che presiedono all’ interpretazione che diamo del mondo in cui viviamo e, soprattutto, diano conto della nostra auto-comprensione, così da fondare su questi assi portanti un nuovo “patto di cittadinanza”.

Non si tratta di un percorso facile. Esige che si assuma a monte una cornice di riferimento che contempli, almeno in questo primo approccio, due percorsi congruenti. Innanzitutto – se pur è più facile dirlo che non farlo – come già detto, un riscatto delle funzione propria della politica e del suo primato. In secondo luogo, e conseguentemente, una ridefinizione del rapporto tra i cittadini – anzi, ciascuno nella sua singolarità – e le istituzioni dell’ ordinamento democratico. Tematiche – su cui tornare – che vanno considerate entro un contesto in cui, oggi, l’istanza individualista prevale nettamente su quel sentimento di reciprocità proprio di una cultura popolare.

Domenico Galbiati

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