Lunedì 14 settembre scorso a Sochi è tornata l’amicizia russo – bielorussa, con i colloqui tra i due rispettivi Presidenti. Il rapporto fra i due leader in questi anni è andato incontro ad alti e bassi, ma il punto più basso forse è stato raggiunto lo scorso 4 agosto, poco prima delle elezioni bielorusse, durante il discorso di Aliaksandr Lukashenko davanti all’Assemblea nazionale (Parlamento). In quell’occasione Lukashenko annunciava “Una volta c’era amicizia fraterna con la Russia, ora tutto è cambiato” mentre lanciava messaggi di amicizia ed ammirazione verso la Cina e di apertura verso l’Europa e gli Stati Uniti. La Russia restò sorpresa e piccata da queste affermazioni.

Poi ci sono state le elezioni, la vittoria estorta con i brogli e le violenze sugli avversari, e la progressiva espansione del movimento di protesta che grida le sue dimissioni.

Tornando a quel 14 settembre, al termine dell’incontro non sono stati firmati agreements. Lukashenko ha comunque ringraziato Putin per il supporto da parte della Russia.

Vladimir Putin ha affermato che la Russia resta impegnata in tutti gli accordi con la Bielorussia, inclusa l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza collettiva (CSTO)[1], e l’Unione intergovernativa Russia-Bielorussia (di tipo economico e doganale). Putin ha confermato che la Russia fornirà alla Bielorussia un prestito di 1,5 miliardi di dollari e che Mosca e Minsk hanno “una profonda intesa in molti settori”, ma devono ripristinare il giro d’affari che è sceso a causa della pandemia di coronavirus. Ha anche osservato che continuerà la cooperazione nella sfera della difesa.

Altro risultato del rinnovato patto di amicizia, sarà la scelta della Bielorussia come primo Paese a ricevere il vaccino russo contro il coronavirus. Il ministro della Salute bielorusso Dmitry Pinevich ha confermato che i test clinici del vaccino russo “Sputnik V” (non ancora stato testato su volontari) sono già iniziati.

Commentando le proteste in corso, iniziate dopo le elezioni presidenziali di agosto, Vladimir Putin ha affermato che gli stessi bielorussi, “senza pressioni esterne”, risolveranno la situazione. “Siamo dalla parte dei bielorussi, vogliamo arrivare a capire questa situazione e ad una soluzione, senza sollecitazioni e pressioni dall’esterno, in modo pacifico e attraverso il dialogo“, ha detto.

Aliaksandr Lukashenko ha risposto dicendo che gli abitanti di Russia e Bielorussia “saranno sempre popoli amici“. “Voglio ringraziarti … non per il fatto che stiamo rispettando gli accordi, questo è naturale. Hai agito in modo molto “decente”, umanamente. Pertanto, personalmente ringrazio te e tutti i russi, tutti quelli, non li elencherò, che sono stati coinvolti nel sostenerci durante questo periodo post-elettorale“, ha detto Lukashenko.

Dopodichè i due Presidenti hanno anche annunciato che si terranno le esercitazioni militari russo-bielorusse “Slavic Brotherhood-2020” presso il campo di addestramento di Brestsky dal 14 al 25 settembre, programmate un anno fa. Tra le altre, vi stanno partecipando unità delle forze aviotrasportate delle guardie russe di Pskov.[2]

Date le premesse di (in)affidabilità e pericolosità, per l’inaudita bramosia di potere, che convivono in entrambi questi leader – che hanno di fatto interrotto il processo democratico per instaurare governi senza nessun limite di mandato – questo incontro ha aperto scenari decisamente cupi per il futuro della Bielorussia. Lo scorso luglio Putin ha varato, a seguito di un referendum popolare vinto con il 77,94% di voti a favore (vittoria oltremodo sospetta), la riforma costituzionale che ha azzerato i suoi mandati precedenti, prevedendo dei particolari meccanismi che gli consentono di poter rimanere presidente fino al 2036.

Alle prossime elezioni del 2024 però il capo del Cremlino potrebbe ritrovarsi il primo ostacolo, ovvero le manifestazioni di protesta della popolazione, come sta accadendo ora in Bielorussia. Alcuni analisti sostengono che, per Putin, ora sia molto più importante fare in modo che l’ondata di dissenso bielorussa contro il proprio leader rimanga arginata entro un livello “accettabile”, senza provocare ripercussioni e scissioni fra le élite che sostengono il governo di Lukashenko, altrimenti si determinerebbe un pericoloso precedente che potrebbe legittimare il metodo della protesta organizzata ad oltranza e la contestazione nelle piazze come mezzo in grado di sovvertire i leader autoritari (proprio come nelle rivoluzioni colorate). Per evitare questo, Putin non esiterà ad intervenire militarmente in Bielorussia, per proteggere il regime Lukashenko, e lo farà soprattutto come segnale verso la propria fronda di dissenso interno e internazionale.

Ad un mese da quelle che sono state le più tese e violente elezioni presidenziali in 26 anni di regime, la situazione in Bielorussia sta quindi evolvendo in modo drammatico.

La dura repressione che Aliaksandr Lukaschenko ha condotto, già in fase pre-elettorale, eliminando i candidati più temibili dell’opposizione (arrivando a minacciarne anche i familiari), non è bastata a piegare la società civile che invece si è fatta parte attiva sia nella protesta contro il regime che nell’appoggiare politicamente i candidati dell’opposizione nel loro progetto per una nuova Bielorussia, che prevede il ripristino alla situazione legislativa antecedente le modifiche autoritarie della costituzione. L’avversario più temibile di Lukashenko ora è la casalinga Svetlana Tikhanobvskaya, che si trova in Lituania, (moglie del candidato blogger Serghei Tikhanovsky in carcere da maggio), e alla quale si sono unite tutte le altre candidature (Barbariko e Tsepkalo già in carcere). Svetlana Tikhanobvskaya è stata l’unica candidata lasciata libera di concorrere con Lukaschenko alle elezioni poiché, secondo quest’ultimo, non aveva nessuna possibilità di vincere, in quanto donna, senza esperienza politica e perchè non rappresentava nessuna élite, ma solo gli interessi della popolazione. Ora anche lei è stata ufficialmente incriminata.

Lukashenko invece rappresenta gli interessi delle grosse imprese pubbliche, della nomenklatura e gli interessi di una élite ben conosciuta quanto misteriosa e pericolosa. Quella dei Siloviki.

I Siloviki (uomini della forza) sono una vera e propria casta, tanto sono influenti e sono il corpo speciale di intelligence e servizi segreti di sicurezza governativi, che agiscono in funzione di consolidare il potere del presidente e proteggerne l’immagine a livello internazionale. Le trame che riescono a costruire per proteggere gli interessi economici e politici di Lukashenko e dell’élite, vanno davvero oltre ogni possibile immaginazione[3].

Secondo alcuni analisti russi, l’unica possibilità per rovesciare il regime di Lukashenko, mettendo fine a questa continuità di corruzione, clientelismo e illegalità, entrati ormai all’interno del sistema istituzionale, è quella di provocare uno scisma all’interno delle stesse élite.

Al momento qualcosa sta cambiando, soprattutto a livello delle élite locali, dove funzionari regionali, sindaci, capi della polizia hanno incontrato i manifestanti, e dove i primi ora sono più orientati e sensibilizzati alle posizioni del popolo. Se si prosegue in questo modo, facendo pressione sulle autorità cittadine e provinciali, potrebbero esserci delle vere e proprie defezioni.

Per fare chiarezza su alcuni aspetti poco approfonditi nella cronaca giornalistica di questi giorni, ritengo opportuno evidenziare, attraverso alcune analisi di accademici bielorussi, le caratteristiche della situazione interna del regime e alcune considerazioni geopolitiche sull’azione dell’Unione Europea e della Russia.

Da quando Lukaschenko fu eletto democraticamente la prima volta nel 1994, cambiò la Costituzione per due volte (nel 1995 e 1996) e, successivamente, nel 2004. Tra le modifiche, oltre all’abolizione del limite dei mandati, sostituì i componenti delle alte corti, inclusa la corte costituzionale. Ne risultarono mutamenti costituzionali in senso autoritario, fino alla neutralizzazione del sistema di checks and balances, che hanno consegnato al presidente un enorme potere. Allo stesso tempo, si sono deteriorate sempre più le libertà di espressione, insieme a diritti politici e sociali. Esattamente quello che Vicktor Orbán e Kazinsky replicarono in patria anni dopo provocando “a serius breach of the EU fundamental values” fino all’attivazione della c.d. “opzione nucleare” dell’art. 7 del TUE[4].

Lukaschenko fu il primo, negli anni’90, fra i Paesi post-comunisti, ad avviare quello che il Prof. Uladzislau Belavusau, di origine bielorussa, Senior Researcher in European Law al T.M.C. Asser Institute (The Hague), dell’Università di Amsterdam, ha coniato con il termine “Belarusisation of the Rule of law”[5] che identifica il processo sopra descritto, di accentramento del potere ed erosione dei diritti e libertà, tipico di un colpo di stato, effettuato senza l’uso delle armi o dell’esercito, ma attraverso l’acquisizione “legale” e graduale di tutti i poteri istituzionali, attraverso la supervisione e il potere di nomina degli organi di controllo, così come è accaduto in Bielorussia.

Fra gli accademici che condividono i principi del costituzionalismo giuridico, sono state analizzate ed individuate diverse fattispecie (aventi il populismo di tipo autoritario come tendenza unificante) cui tali meccanismi si riconducono e che sono stati descritti attraverso varie terminologie: democratic backsliding, abusive constitutionalism, constitutional capture, autocratic legalism. Tutti questi concetti hanno a che fare con la graduale limitazione dei diritti civili e politici e della Rule of Law per fini legati alla conquista e mantenimento del potere, ovvero all’ingerenza dei governi verso le corti costituzionali per sostituire i giudici considerati oppositori alle loro politiche. La letteratura giuridica internazionale accosta tali processi di deriva incostituzionale a Paesi come l’Ungheria, la Polonia, la Turchia (Kim Lane Scheppele, 2018)[6].

Nel caso bielorusso, la patologia emerge con chiarezza quando si guarda alla carta costituzionale di un paese così fortemente autoritario. L’articolo 1 della Costituzione afferma che “La Bielorussia è uno Stato democratico, unitario e sociale, fondato sulla rule of law[7]. Secondo l’analisi del Prof. Belavusau[8], il costituente intendeva richiamarsi alla costituzione tedesca[9], in particolare con riferimento al modello socialdemocratico dei diritti sociali, purtroppo solo formalmente, poichè i limiti e le arretratezze imposti dall’autoritarismo alla legislazione bielorussa impediscono quel processo di evoluzione giuridica che avviene negli ordinamenti autenticamente fondati sul rispetto della Rule of Law. Va ricordato come questo arretramento giuridico sia correlato con quello economico. Infatti, uno dei fattori principali per uno Stato che vuole essere competitivo economicamente nel lungo periodo, è quello di un ordinamento giuridico moderno, multilivello, che tutela diritti e libertà. In passato la Bielorussia, nonostante la sua scarsa superficie (207.595 Km2), durante il governo dell’Unione Sovietica, rappresentava per quest’ultima 1/4 delle sue entrate. A partire dal regime Lukashenko invece, con la promessa elettorale che la Bielorussia sarebbe diventata la nuova Svizzera, il paese è andato incontro ad un impoverimento (il PIL è rimasto fermo al 2010) ed allargamento esponenziale tra il livello della ricchezza accumulata dalla ristretta élite, attraverso operazioni finanziarie e acquisizioni/distrazioni di beni e proprietà ai danni delle casse dello stato bielorusso, e quello prodotto dalla popolazione, sempre più eroso dalle inefficienze della corruzione e dalla crisi economica. I pensionati e i non abili al lavoro invece vivono di soli sussidi (quando li ricevono) ed hanno un’esistenza ai margini (o al di sotto) della sopravvivenza.

I diritti sociali (o meglio socialisti) sono stati orgogliosamente definiti dai loro sostenitori come il mainstream del costituzionalismo sovietico contro l'”individualismo ipocrita” dei diritti umani occidentali, ovvero il frutto di quell’elitismo democratico di Stati Uniti e dell’Occidente contro i totalitarismi.

In Bielorussia si caratterizzano in termini di benefici legali garantiti dallo Stato, come i diritti all’istruzione, alla protezione sanitaria, all’abitazione, ecc. ma la loro costruzione rimane essenzialmente programmatica.

L’eredità sovietica delle relazioni industriali e il nichilismo giuridico sono stati presi come modello da Lukashenko per le proprie politiche del lavoro, le cui violazioni più gravi riguardano le libertà costituzionali dei sindacati e il “peculiare” sistema contrattuale di lavoro.

Nel 2004 il governo ha introdotto una riforma incompatibile con le odierne normative del diritto del lavoro internazionali, oltre che marcatamente antisindacale: la conversione obbligatoria dei contratti a tempo indeterminato in contratti a tempo determinato con la durata di un anno[10]. Nella maggior parte dei paesi europei il contratto di lavoro individuale svolge solo un ruolo marginale in relazione alla diffusione della contrattazione collettiva. In Bielorussia la situazione è diversa, in quanto i sindacati ufficiali sono controllati dal governo, che allo stesso tempo impiega indirettamente la maggior parte della forza lavoro nel paese. Nel modello bielorusso gli interessi dei datori di lavoro e le organizzazioni dei lavoratori pertanto coincidono, in quanto sono tutti sotto il controllo dello stato. Di conseguenza non c’è posto per una contrattazione collettiva equa, i datori di lavoro non sono più obbligati a giustificare il mancato rinnovo del contratto, a notificarne in anticipo la conclusione, o a fornire indennità di licenziamento. In assenza di meccanismi di concertazione, in quanto i sindacati indipendenti non possono sedere al tavolo della contrattazione, questa “rivoluzione dall’alto” obbliga i lavoratori ad essere subordinati a tutte le ingiustizie del modello industriale bielorusso.

Le gravi violazioni dei diritti dei lavoratori sono da molti anni oggetto di denunce da parte dell’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro), dell’Unione Europea e dell’ONU.

Come sottolinea il Prof. Yaraslau Kryvoi (di origine bielorussa), Senior Research Fellow in International Economic Law al British Institute of International and Comparative Law, le autorità bielorusse hanno reintrodotto molti degli istituti e meccanismi dell’ex Unione Sovietica, come l’imposizione di un solo sindacato di stato, il Federation of Trade Unions of Belarus (FPB), che ha il compito di annullare qualsiasi forma di sindacato indipendente. I pochi sindacati ancora liberi sono quindi costretti alla clandestinità per non essere sottoposti a gravi azioni penali. In particolare, la violazione del diritto di associazione e di contrattazione sono, secondo l’ILO, fra tutte le violazioni, quelle più gravi per diversi motivi. Se uno Stato arriva ad impedire la libertà di associazione, sicuramente – se non lo ha già fatto – ridurrà anche altre libertà, fino all’utilizzo del lavoro forzato per i propri scopi (costruire infrastrutture militari oppure discriminare gruppi di individui). Questo si è concretizzato proprio in Bielorussia dove l’inclinazione di Lukaschenko verso il ricorso al lavoro forzato[11], anche minorile, rappresenta uno degli ostacoli che impedisce qualsiasi evoluzione e dialogo verso il riconoscimento, prima di tutto, dei diritti umani.

In linea con tale politica sulle relazioni industriali, è stata la visita di Lukaschenko ad una fabbrica lo scorso 17 agosto, pensando di realizzare la “tradizionale” retorica populista con l’immagine del leader operaio, applaudito dai lavoratori, forte della protezione del sindacato di stato. Ed invece è stato fischiato ed umiliato pubblicamente, dagli operai in sciopero che all’unisono gridavano “Vattene!”.

Persino gli operai dei colossi pubblici – come la società produttrice di veicoli da trasporto e scavo BelAz e quelle di fertilizzanti Belaruskali e Grodno Azot – una volta fedeli al leader e che lui si ingraziava con sussidi più generosi, crediti, e rifiutando privatizzazioni, ora chiedono le sue dimissioni.

Lukashenko non accetta di adeguarsi ai valori della pace, sicurezza e libertà e agli standard di protezione dei diritti umani e purtroppo non vi sono molti meccanismi internazionali ai quali affidarne la difesa. Il paese non fa parte del Consiglio d’Europa e quindi non è possibile accedere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, soprattutto perchè la Bielorussia prevede la pena di morte nella propria costituzione. Infatti, all’art. 24, la pena capitale “è permessa in via eccezionale per crimini particolarmente gravi”[12]. A tal riguardo, il Consiglio d’Europa ha ribadito che tale pratica inumana allontana la Bielorussia dai valori del Consiglio ed ha esortato in più occasioni le autorità bielorusse a istituire una moratoria sulle esecuzioni, come prima tappa verso l’abolizione della pena di morte, ma le numerose e sistematiche esecuzioni (non è possibile accertarne il numero)[13], sono un chiaro segnale di come la Bielorussia (o meglio Lukashenko) resti indifferente agli appelli verso un’apertura sui diritti umani.

In una recente intervista, il Prof. Belavusau spiega come mai, proprio ora, dopo 26 anni di dittatura, la popolazione bielorussa non intende più sottostare all’ennesimo inganno dei brogli elettorali e urli a gran voce un cambiamento.

La prima ragione riguarda il livello di profonda stagnazione economica, politica e culturale nella quale Lukaschenko ha trascinato la Bielorussia in questi 26 anni. Inoltre, la popolazione ora versa in uno stato di estrema povertà. A questo, si è aggiunto l’effetto amplificatore della pandemia di Covid-19 e la scelta (diversamente da Polonia, Ungheria e anche Russia) della strada del semi-negazionismo, lasciando piena libertà di comportamento, non imponendo nessun blocco ed utilizzando la retorica populista “alla Bolsonaro”. Il leader consiglia infatti al proprio popolo: “Per combattere il Covid non c’è niente di meglio che bere vodka, giocare ad hockey, la sauna, coltivare i campi”.

Il Presidente non ha ancora esercitato i poteri di emergenza di cui dispone, ai sensi della Costituzione. Invece, le misure adottate finora si sono fondate su differenti basi giuridiche, molte delle quali utilizzate a livello locale. Allo stesso tempo, il governo ha introdotto misure aggiuntive sulla regolamentazione statale dei prezzi su determinati beni, comprese maschere e disinfettanti, limiti alla vendita di determinati farmaci e attrezzature mediche.

Uno dei fatti che ha molto colpito la popolazione bielorussa, sempre secondo Belavusau[14], è stata la grandiosa Parata Militare a Minsk lo scorso maggio, per commemorare il giorno della Vittoria nel 75° anniversario della fine della II Guerra Mondiale e del nazismo nonostante si fosse in piena crescita dei casi da Covid-19.

Una petizione firmata da 13.000 persone non è stata sufficiente ad annullare la manifestazione. Le risorse economiche (ingenti) per allestire l’imponente evento potevano invece essere utilizzate per l’acquisto di ventilatori polmonari e attrezzature ospedaliere, farmaci, ecc., ma il dittatore ha risposto che sarebbe stato inammissibile cambiare la “tradizione” e che “il Covid è solo una psicosi”. L’immagine, per l’atterrito popolo bielorusso, è stata come di una “festa in tempo di peste”.

Lukashenko vuole dare invece l’immagine di uno stato forte, liberale e democratico, che non impone lockdown alla propria economia, diversamente dalle c.d. democrazie illiberali come Polonia e Ungheria che lo hanno imposto.

Ciò ha portato il governo a sopprimere più duramente le proteste, con la chiusura di Internet e qualsiasi altro veicolo di opinioni contrarie a quelle di regime sulla situazione pandemica, compresa la pressione sui pochi media indipendenti rimasti, fino all’arresto di giornalisti e operatori sanitari. Tutto questo ha reso molto difficile determinare il numero effettivo di vittime da Covid-19 e la situazione reale negli ospedali bielorussi, prosegue Belavusau. Il popolo bielorusso non ha mai dato prove di vera forza nel passato, e questo è dovuto a diverse concause. Di fondo, vi è l’assenza di una concreta esperienza democratica con azioni civili collettive e mirate contro le ingiustizie sociali. Ma forse ora le cose stanno cambiando.

Una diversa prospettiva geo-politica della situazione bielorussa, ancorchè sia stata scritta in occasione delle elezioni del 2015[15], proviene da due autori, il Prof. Kryvoi insieme ad Andrew Wilson, Senior Policy Fellow presso il think-thank European Council on Foreign Relations, secondo i quali l’Unione Europea avrebbe avuto un approccio sbagliato nella gestione dei rapporti con il paese bielorusso, provocando frustrazione nella popolazione e mancanza di progressi.

Prima di tutto, secondo i due autori, ci sono diversi malintesi alla base delle relazioni fra Europa e Bielorussia.

Il primo, riguarda l’assunto che, semplicemente a causa della prossimità geografica, i bielorussi dovrebbero comprendere e condividere i valori europei, desiderando l’adesione all’Unione Europea e quest’ultima si aspetterebbe che la Bielorussia avesse le stesse aspirazioni della maggior parte degli altri paesi europei, tra cui il passaggio ad un’economia di mercato, alla democrazia e allo Stato di diritto.

In realtà, sia la propaganda russa che la propaganda interna hanno, per anni, costantemente screditato i valori europei, mostrando le istituzioni europee sotto una luce molto negativa. La mancanza di un dibattito pubblico libero e l’accesso limitato alle informazioni non censurate, sono sempre stati utilizzati come strategie per indebolire la domanda pubblica di integrazione con l’Europa. Allo stesso tempo, i bielorussi non sono intrinsecamente filorussi. L’opinione pubblica quindi si sposterebbe tra una preferenza per la Russia e l’UE, a seconda della direzione che sembra più fattibile e conveniente al momento.

Inoltre, la politica perseguita in questi anni sul tema sanzioni, ha evidenziato che l’Unione Europea si sia spesso concentrata sugli ambiti nei quali la Bielorussia non aveva superato gli standard imposti, dimostrando invece di mancare di altrettanta intraprendenza ad esempio nel creare un dialogo autentico su argomenti che non fossero i diritti umani o la democrazia (almeno all’inizio). Nonostante dal 2006 siano  in atto sanzioni dell’Unione Europea (e degli Stati Uniti) verso la Bielorussia, queste hanno dato palesemente scarsi risultati, poiché lo strumento delle sanzioni non è sempre valido per tutte le occasioni: ad esempio la Bielorussia non ha relazioni commerciali significative con i Paesi Occidentali ed ha invece uno sponsor orientale molto potente, la Russia (anche se in difficoltà da tempo per la crisi economica e le sanzioni), che ne avalla le politiche autoritarie e discriminatorie, contribuendo così a generare quei c.d. “effetti perversi”, come la creazione di mercati paralleli e privilegiati con la Russia e altri Paesi soggetti a sanzioni (Kryvoi, 2008)[16].

Il secondo ed importante malinteso è che molti politici occidentali (e non solo) sono caduti vittima dello stereotipo della Bielorussia come la “Corea del Nord d’Europa”, una dittatura isolata in cui è del tutto inutile ottenere qualcosa e con la quale occorre conviverci per non “disturbare i già precari equilibri dell’area”.

Gli autori sottolineano come questa immagine non solo non sia vera, ma che abbia fatto male alla causa della Bielorussia, generando al contrario molti luoghi comuni sulla situazione sociale ed economica, danneggiando effettivamente la popolazione, soprattutto quando, ad alti livelli europei, si discuteva del “ruolo primario della società civile nel promuovere un cambiamento politico radicale a Minsk”. L’idea che il popolo bielorusso possa essere in grado di realizzare questo cambiamento, sembra quasi impossibile dopo decenni di “Belarusitation”.

Possiamo solo vagamente immaginare il tipo di repressione politica alla quale i bielorussi sono stati sottoposti per anni. Le asimmetrie informative dovute al controllo dei media hanno impedito all’opinione pubblica di agire come cittadini informati ed evoluti, coloro che nel pensiero costituzionalista sono indicati come “agenti di cambiamento politico”.

La minaccia della rivoluzione ha invece avuto un forte effetto psicologico su Lukashenko, soprattutto perché i dittatori come lui sono convinti che tutte le cosiddette “rivoluzioni colorate” sono organizzate con la collaborazione degli Stati Occidentali. Di conseguenza, è diventato estremamente difficile avviare azioni rivoluzionarie efficaci per influenzare la situazione in Bielorussia dall’interno.

Il terzo ed ultimo grave malinteso è che l’Unione Europea pensa che il cambiamento di regime in Bielorussia porterà inevitabilmente ad un governo filo-occidentale a Minsk, sulla base dell’altrettanto discutibile presupposto che Lukashenko non sia poi così tanto russofilo. Anche se ci fosse un cambiamento di regime in Bielorussia, nelle circostanze attuali non produrrebbe necessariamente un regime filo-occidentale, data l’enorme l’influenza della Russia nello spazio economico, politico e mediatico bielorusso. La minaccia di una maggiore indipendenza bielorussa potrebbe spingere la Russia a creare un conflitto come scusa per intervenire, com’è successo in Ucraina.

Tuttavia, senza lo sviluppo di un’identità nazionale più forte, la Bielorussia potrebbe facilmente diventare parte della Russia, soprattutto se il leader non fosse più al potere.

Per evitare tale denegata ipotesi, Kryvoi e Wilson vedrebbero positivamente una rinnovata politica di “impegno” dell’Unione Europea che, senza nutrire speranze irrealistiche in una svolta in senso democratico, offra quell’assistenza in grado di dare, dall’esterno, una forma più moderna alla costruzione di una nazione, anche attraverso programmi a lungo termine che potrebbero già essere realizzati.

Un esempio citato dagli autori, in cui coincidono gli interessi delle élite bielorusse, della società civile e dell’UE (e che ha visto una sua effettiva realizzazione in questi anni), è stato quello della politica dei visti Schengen (la Bielorussia riceve più visti Schengen pro-capite di qualsiasi altro paese) alla quale ha fatto seguito il recente accordo di riammissione di cittadini irregolari[17], sottoscritto a luglio di quest’anno tra Unione Europea e Bielorussia.

Un altro settore d’intervento riguarda i programmi di borse di studio, come l’European Scholarship Scheme for Young Belarusians, che dovrebbero essere introdotti anche per gli studenti di dottorato e i professori. Tuttavia, non è sufficiente aiutare i giovani a lasciare la Bielorussia per studiare nelle università occidentali. È altrettanto importante sostenere e aumentare i programmi di borse di studio che prevedono il rientro in patria degli studenti che si sono qualificati all’estero, in modo da consentire loro di mettere a frutto competenze di tipo “occidentale” nei settori dell’istruzione, del diritto, della tecnologia, della medicina, della pubblica amministrazione, ecc.

Altro fattore non trascurabile, riguarda il coinvolgimento della Bielorussia, anche come membro formale del partenariato orientale[18], che va conservato nonostante gli scarsi risultati ottenuti nel passato, per consentire la cooperazione con l’Ucraina e altri paesi della regione su questioni di reciproco interesse.

Chiaramente, l’attuale leadership bielorussa rimane disinteressata alla prospettiva di aderire all’Unione Europea, diversamente dai leader di paesi come l’Ucraina, ma questo significa che serve un approccio diverso e più mirato all’obiettivo. Infine, molti dei problemi che la Bielorussia deve affrontare sono simili a quelli dell’Ucraina e questo dovrebbe incoraggiare l’Unione Europea, come le altre istituzioni internazionali, al finanziamento della cooperazione tra Bielorussia e Ucraina a tutti i livelli (statale e non statale).

Il Parlamento Europeo ha appena approvato una risoluzione[19] in cui condanna le violente repressioni sui manifestanti, l’ingerenza della Russia e invita il Consiglio dell’Unione a promulgare idonee sanzioni.

Al di là di qualsiasi analisi, oggi quello si sta delineando nella realtà è invece uno spiraglio di ottimismo per il futuro democratico della Bielorussia, e non solo, secondo il parere di Freedom House[20]. La ribellione in atto in Bielorussia da oltre un mese è il primo, forte segnale di una inversione della tendenza che, dal 1995 in poi, vedeva in Europa centrale e orientale le democrazie sempre più affievolite e ridotte. E per la prima volta in 26 anni, Lukashenko deve ora affrontare uno dei più forti movimenti a favore della democrazia in Europa negli ultimi anni che, soprattutto in un momento dominato dalla pandemia globale, protesta compatto e pacificamente per invertire la recrudescenza autoritaria.

Silvia Andreuzza

 

[1] Il CSTO è lo sviluppo istituzionale del Trattato di sicurezza collettiva. Quest’ultimo è un’alleanza militare difensiva stipulata nel 1992 tra alcuni paesi membri della Comunità degli stati indipendenti (Cis), organizzazione regionale cui aderiscono molti dei paesi nati dalla frammentazione e successiva dissoluzione dell’Unione Sovietica). Nel 2009 il Consiglio della Csto ha approvato la creazione di una Forza di reazione rapida con base in Kirghizistan (cui la Bielorussia ha tuttavia deciso di non contribuire con un suo contingente militare), con l’intento di creare una forza in grado di rispondere in maniera immediata a un ipotetico attacco militare o terroristico.

[2] https://www.kommersant.ru/doc/4492162?from=hotnews

[3] https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2020/08/17/ex-premier-kirghiso-defunto-risuscita-bielorussia/

[4] L’articolo 7 del trattato sull’Unione europea prevede la possibilità di sospendere i diritti di adesione all’UE (ad esempio il diritto di voto in sede di Consiglio) in caso di violazione grave e persistente da parte di un paese membro dei principi sui quali poggia l’Unione (libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo, delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto). Restano per contro impregiudicati gli obblighi che incombono al paese stesso.

[5] Belavusau U., On Age Discrimination and Beating Dead Dogs: Commission v. Hungary, Common Market Law Review, Vol. 50, No. 4, pp. 1145-1160, 2013.

[6] Scheppele, K.L., Autocratic Legalism, 85 Uni. Chi. L. Rev. 545, 2018

https://lawreview.uchicago.edu/sites/lawreview.uchicago.edu/files/11%20Scheppele_SYMP_Online.pdf

[7] Article 1: “The Republic of Belarus is a unitary, democratic, social state based on the rule of law […]”

[8] The Prague Yearbook of Comparative Law – 2010: L’analisi di Belavusau riguardava Russia, Ucraina e Bielorussia

[9] “II. DER BUND UND DIE LÄNDER. ARTIKEL 20 [Grundsätze des deutschen Staates] Die Bundesrepublik Deutschland ist ein demokratischer und sozialer Bundesstaat”. La Repubblica Federale Tedesca è uno Stato federale democratico e sociale.

[10] Instruction of Council of Ministers of Belarus No. 30/14/102-925, 9 January 2004

[11] https://belarusdigest.com/story/the-many-faces-of-forced-labour-in-belarus/

[12] Fra i crimini gravi vanno segnalati il terrorismo, la cospirazione contro lo Stato, gli atti di guerriglia. L’esecuzione viene eseguita all’improvviso, senza avvisare né il condannato, né i suoi famigliari (ai quali non viene comunicato nulla) e avviene tramite un colpo di pistola alla nuca.

[13] https://lepersoneeladignita.corriere.it/2019/06/16/bielorussia-il-boia-continua-a-lavorare/

[14] https://verfassungsblog.de/the-state-of-denial-amidst-a-military-parade-covid-19-in-belarus/

[15] https://www.ecfr.eu/page/-/ECFR_132_Belarus_(May_5_-_version_2).pdf

[16] Kryvoi Y., Why European Union Trade Sanctions Do Not Work, University of Minnesota Law School Scholarship Repository, Minnesota Journal of International Law, 2008

[17] https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2020/05/27/belarus-eu-concludes-agreements-on-visa-facilitation-and-readmission/

[18] https://www.consilium.europa.eu/it/policies/eastern-partnership/eastern-partnership-policy-beyond-2020/

[19] https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/RC-9-2020-0271_IT.pdf

[20] https://freedomhouse.org/country/belarus/freedom-world/2020

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