Giorgia Meloni può dormire, tra due guanciali, sonni tranquilli, malgrado l’ evidente “empasse” in cui si è infilata da sola.
Al contrario, per quanto concerne il PD è giunto, e non più procrastinabile, il
tempo che si interroghi, in modo severo, sulle responsabilità che gli competono sia nei confronti del Paese, sia in ordine alla storia ed alla cultura politica delle forze che hanno concorso alla sua nascita.
Se il cardine dell’opposizione e della possibile eventuale coalizione alternativa alla destra, in vista delle prossime elezioni politiche, fosse il Partito Democratico che si è visto all’opera ieri l’altro a Strasburgo, il rischio è che neppure vi sia partita. È possibile che gli italiani si sentano incoraggiati ad affidare il Paese ad una forza che, su un tema di politica estera di tale rilievo, salvo spaccarsi a metà come una mela, su espressa indicazione della Segretaria, abbandona il campo e si rannicchia in una pilatesca astensione, priva di ogni effettivo valore politico? E, per di più, si isola dallo stesso
gruppo parlamentare cui appartiene. Si tratta solo di clamorosi errori contingenti oppure dell’onda lunga di un difetto originario ben difficilmente emendabile? Se poi si allarga appena lo sguardo attorno e si osserva l’area del presunto “campo largo” cascano letteralmente le braccia.
Il PD deve rendersi conto che, ammesso e non concesso che potesse rappresentare una reale alternativa, il “campo largo” ha accumulato tanto piombo nelle ali da non poter più decollare. E da apparire, a questo punto, aleatorio, una sorta di finzione che viene, in una qualche maniera, tenuta in piedi per nascondere la mancanza di ogni altra vera prospettiva strategica.
Non si è mai vista un’alleanza che possa reggere senza aver preventivamente condiviso i capisaldi di una visione comune e tra questi sicuramente rientra la politica estera che, al contrario, contrappone almeno mezzo PD al Movimento 5 Stelle. Per non dire dei Verdi e della sinistra di Fratoianni.
L’impressione, ad ogni modo, è che il partito vada da una parte e la Segretaria, dall’altra, insegua una sua personale visione che, fin qui trattenuta a fatica, via via si rivela. Forse non c’ è da sorprendersi: la segreteria di Eddy Schlein è nata da une elezione primaria che è del tutto “ altra” cosa rispetto alla elaborazione ed al confronto interno al partito. Il quale, a dimostrazione della sua tara genetica originaria, per forza di cose è costretto ad “esternalizzare”, se così si può dire, l’atto fondamentale della sua vita, cioè la scelta di chi lo debba guidare, affidandola ad un’istanza che lo travalica, non potendo, in altro modo, portare ad una effettiva sintesi politica la dialettica interna tra visioni e culture di differente origine. Le quali sicuramente avrebbero dovuto convergere e sviluppare un’azione congiunta contro la destra, fin d’allora populista, rappresentata da Berlusconi, purché lo facessero dando vita ad una “coalizione” come, a suo tempo, la intese De Gasperi, e non, invece, ad una “fusione”. E la differenza tra questi due differenti approcci che, a prima vista, potrebbe apparire solo una questione tattica o di metodo, è, al contrario, di fondamentale rilievo politico, cosicché, non a caso, tuttora logora l’iniziativa del partito. Il quale, non per nulla, finisce per apparire un luogo dove sono accampate tribù diverse, tenute assieme da reciproche convenienze di potere, piuttosto che un vero ed autentico partito.
Non sorprende, a questo punto, che un autorevole esponente dell’area popolare del PD, come Luigi Zanda, chieda un congresso straordinario del partito e, contestualmente, sganci una bomba di profondità, dichiarando espressamente di ritenere Eddy Schlein inadatta s guidare, da candidata alla guida del governo, lo scontro elettorale con Giorgia Meloni. A tale proposito, resterebbe da dire, in una prossima occasione, del ruolo riservato ai “popolari” nel Partito Democratico.
Domenico Galbiati