Un saggio di Pietro Dubolino, presidente di sezione emerito della Corte di Cassazione, i cui commentari da decenni aiutano gli operatori del diritto, permette di tornare sulla sentenza n. 9006/2021, depositata il 31 marzo, in materia di riconoscimento in Italia dell’adozione internazionale da parte di una coppia omogenitoriale. Secondo Dubolino la Cassazione, nel decidere come ha deciso, si è fatta guidare da considerazioni in larga parte metagiuridiche, perseguendo la precisa finalità, di ordine essenzialmente politico, di compiere un altro passo sulla via dell’ammissione del pieno ed incondizionato diritto della coppie omosessuali all’adozione di minori.
1. Il ragionamento sulla base del quale le S.U. della Cassazione, con la sentenza n. 9006/2021 (su cui già su questo sito CLICCA QUI ), hanno ritenuto riconoscibile in Italia, in quanto non contrastante con l’“ordine pubblico”, il provvedimento di un organo giudiziario degli Stati uniti d’America che attribuiva lo status di genitori adottivi di un minore ad una coppia di omosessuali di genere maschile, previa acquisizione del consenso da parte dei genitori naturali e verifica della sua rispondenza a quello che si assumeva essere il “miglior interesse” del minore stesso è, in estrema sintesi, riassumibile nel modo seguente:
- secondo una linea interpretativa da tempo affermatasi nella giurisprudenza tanto di legittimità quanto costituzionale, debbono ritenersi norme di “ordine pubblico” e, come tali, ostative alla riconoscibilità di sentenze o altri provvedimenti giudiziari stranieri con esse contrastanti (ai sensi degli artt. 64, comma 1, lett. g, e 65, ultima parte, della legge n. 218/1995, richiamati, per quanto riguarda specificamente la materia delle adozioni, dall’art. 41, comma 1, della stessa legge), soltanto quelle norme che costituiscano attuazione di principi fondamentali vincolanti per lo stesso legislatore ordinario, con riferimento (come specificato, ad esempio, nella precedente sentenza delle S.U. n. 12193/2019, richiamata in quella n. 9006/2021), tanto alla Costituzione quanto ad altre “regole che, pur non trovando in essa collocazione, rispondono all’esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo, o che informano l’intero ordinamento in modo tale che la loro lesione si traduce in uno stravolgimento dei valori fondanti dell’intero assetto ordinamentale”;
- deve quindi escludersi che siano di ordine pubblico norme le quali, pur se riconosciute in armonia con la Costituzione e con le altre regole sopraindicate, non presentino tuttavia carattere di necessità ma siano frutto di scelte discrezionali del legislatore il quale potrebbe, quindi, modificarle o sostituirle con altre che siano parimenti compatibili con gli anzidetti parametri e siano anche, per avventura, sostanzialmente conformi alle norme straniere con le quali quelle vigenti in Italia siano attualmente in contrasto;
- di tale natura sono le norme che attualmente precludono, nel nostro paese, l’accesso all’adozione di minori da parte di coppie di fatto, pur se eterosessuali (art. 6 della legge n. 184/1983, per il quale “l’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni”) come pure da parte di coppie di omosessuali che abbiano tra loro stabilito il vincolo dell’unione civile (art. 1, comma 20, della legge n. 76/2016, per il quale l’equiparazione dell’unione civile al matrimonio “non si applica…..alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983 n. 184” e “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti” );
- tali norme, pertanto, non possono essere ritenute di ordine pubblico, per cui non può ritenersi precluso il riconoscimento di provvedimenti giudiziari stranieri in materia di adozione sol perché basati su norme che siano con esse in contrasto consentendo, come nel caso in questione, l’adozione anche a coppie omosessuali; ciò a condizione che non risulti che il minore adottato sia stato concepito mediante ricorso alla pratica della c.d. “maternità surrogata” giacché, in tal caso, il riconoscimento dell’adozione sarebbe invece in contrasto con una norma di ordine pubblico quale deve ritenersi, secondo quanto già affermato dalla citata sentenza delle S.U. n. 12193/2019, quella che vieta, nel nostro ordinamento, sotto comminatoria di sanzioni amministrative e anche penali, la suddetta pratica (art. 12 della legge 19 febbraio 2004 n. 40).
2. L’apparente linearità di tale ragionamento viene però messa a dura prova ove si consideri che, alla stregua di quanto emerge dalla medesima sentenza delle S.U. ora menzionata, il divieto della “maternità surrogata”, ancorché costituzionalmente legittimo, siccome volto ad impedire una pratica che – si afferma – “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”, è comunque “espressione di una scelta non irragionevole, compiuta dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità” e collocabile “nell’ambito di un bilanciamento” tra interessi ugualmente meritevoli di tutela quali, nella specie, da un lato l’interesse del minore a vedersi riconosciuta anche in Italia l’esistenza, affermata dal giudice estero, del rapporto di genitorialità con il committente della maternità surrogata; dall’altro lato, l’interesse collettivo alla salvaguardia, mediante il divieto in questione, di un valore quale è quello della dignità umana della donna.
Si tratta, dunque, all’evidenza, di una scelta non necessitata, come confermato, del resto, anche con riferimento agli obblighi derivanti da convenzioni internazionali, dal fatto che, come ricordato sempre nella sentenza delle S.U. n. 12193/2019, “la Corte EDU ha da tempo affermato che gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento sia ai fini della decisione di autorizzare o meno la predetta pratica che con riguardo alla determinazione degli effetti da ricollegarvi sul piano giuridico, dando atto che è in gioco un aspetto essenziale dell’ identità degli individui, ma rilevando che in ordine a tali questioni non vi è consenso a livello internazionale, e ritenendo comunque legittime le finalità di tutela del minore e della gestante, perseguite attraverso l’imposizione del divieto in questione”.
Né, d’altra parte, potrebbe in alcun modo sostenersi che il carattere di norma di ordine pubblico sia da attribuire al divieto di surrogazione di maternità per il solo fatto che trattasi di divieto assistito (anche) da sanzione penale, atteso che la presenza di una tale sanzione non implica, di per sé, che la norma in questione debba essere ritenuta attuativa di principi fondamentali inderogabili e, come tali, vincolanti per il legislatore ordinario, secondo la già ricordata linea interpretativa della nozione di “ordine pubblico” attualmente seguita dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità.
3. Alla stregua di tali considerazioni sembra quindi doversi porre, necessariamente, la seguente alternativa: o hanno sbagliato le S.U. nel ritenere, con la sentenza n. 12193/2019, che sia di ordine pubblico il divieto della maternità surrogata, nonostante che esso non sia imposto da alcuna fonte normativa di livello superiore ma sia frutto di una scelta discrezionale operata dal legislatore ordinario; oppure hanno sbagliato le stesse S.U. nell’escludere, con la sentenza n. 9006/2021, che siano di ordine pubblico le norme che precludono l’accesso all’adozione da parte di coppie omosessuali, per il solo fatto che le stesse, ancorché non in contrasto con la Costituzione e con le convenzioni internazionali, siano anch’esse frutto di un’analoga scelta discrezionale del legislatore.
Alla prima di tali ipotesi si oppone, tuttavia, proprio la sentenza n. 9006/2021, dal momento che questa, come si è visto, presta totale adesione a quanto si afferma in quella n. 12193/2019. Rimane quindi valida soltanto la seconda ipotesi, ad ulteriore conforto della quale può inoltre osservarsi che non sarebbero mancati, in realtà, argomenti a sostegno della riconoscibilità, in positivo, del carattere di norme di ordine pubblico a quelle per le quali, nel nostro ordinamento, le coppie omosessuali non sono ammesse all’adozione di minori.
Trattasi, infatti, di norme non certo concepite in odio ai soggetti con tendenze omosessuali ma piuttosto finalizzate soltanto a tutelare un valore di sicuro rilievo costituzionale e convenzionale quale è quello dell’interesse dei minori destinati all’adozione ad essere immessi in un ambiente che sia il più possibile assimilabile a quello della famiglia naturale, quale definita e tutelata, in particolare, dall’art. 29 della Costituzione; interesse, quello anzidetto, che ragionevolmente potrebbe ritenersi messo a rischio nel caso di adozione da parte di coppie omosessuali, per le quali non può valere la presunzione di idoneità genitoriale che vale invece, sulla base della comune esperienza, in assenza di elementi ostativi, per le coppie eterosessuali che tradizionalmente costituiscono la famiglia naturale.
4. A tale ultimo proposito mette pure conto osservare che le S.U., a sostegno della ritenuta insussistenza del suddetto rischio, si sono limitate a richiamarsi a quella che, a loro avviso, sarebbe la “mancanza di riscontri scientifici sulla inidoneità genitoriale di una coppia formata da genitori dello stesso sesso”. Al che può facilmente obiettarsi che tale affermazione, oltre a caratterizzarsi per assoluta apoditticità e genericità, appare frutto di un vero e proprio errore metodologico, costituito dalla indebita inversione dell’onere probatorio. Quest’ultimo, infatti, grava, secondo un’antica e tuttora valida regola risalente al diritto romano, su chi intende sostenere la validità di un assunto in contrasto con altro che gode di generalizzato consenso; ragion per cui, con riguardo all’idoneità genitoriale delle coppie omosessuali, trattandosi di un assunto fortemente innovativo rispetto ai comuni ed inveterati convincimenti posti anche a base (come si è visto) di precise norme giuridiche, dovrebbero essere coloro che la sostengono a fornire, in positivo, la prova scientifica della sua riconoscibilità e non invece pretendere che sia, “ex adverso”, dimostrata scientificamente la non riconoscibilità.
Illuminante, in proposito, dovrebbe essere l’illustre esempio di Galileo, il quale, nel proporre la teoria eliocentrica in luogo di quella geocentrica, fino ad allora dominante, si diede carico di fornire quelle che, a suo avviso, sarebbero state le prove della sua validità (incorrendo anche in gravi infortuni, come quando addusse erroneamente come prova il movimento delle maree) e non pretese che fossero i sostenitori della teoria tradizionale a dimostrare l’invalidità della nuova.
5. Ma ulteriori e ancor più gravi (se possibile) carenze motivazionali appaiono rinvenibili nella pronuncia delle S.U. con riferimento ad un’altra e diversa peculiarità (rispetto a quella consistente nell’omosessualità degli adottanti) riscontrabile nel provvedimento giudiziario americano di cui si chiedeva il riconoscimento; peculiarità costituita (come già accennato all’inizio) essenzialmente dal fatto che il bambino aveva dei genitori naturali i quali avevano prestato il loro consenso all’adozione da parte della coppia “gay”. Si era trattato, quindi, in sostanza, di una vera e propria “cessione” del minore da parte dei genitori naturali a quelli adottivi.
Il che avrebbe dovuto essere considerato di ostacolo al riconoscimento dei provvedimento in questione, indipendentemente dal fatto che la coppia adottante fosse omosessuale o eterosessuale, considerando che, secondo l’ordinamento italiano, l’adozione di un minore non può mai essere disposta sulla sola base di una volontaria cessione del minore stesso, da parte dei genitori naturali, a quelli adottivi. Stabilisce infatti l’art. 1, comma 1, della legge n. 183/1983 che “il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia”, dalla quale può essere sottratto, secondo il comma 4 dello stesso articolo, solo “quando la famiglia non è in grado di provvedere alla crescita e all’educazione” del minore stesso, per cui egli venga a trovarsi in quella che l’art. 8 della stessa legge definisce come “situazione di abbandono”.
Si tratta di norme alle quali appare obiettivamente difficile negare il carattere di norme di “ordine pubblico”; carattere che, d’altra parte, non risulta esplicitamente negato neppure dalla Cassazione, la quale si è limitata, sul punto, ad osservare che al riconoscimento del provvedimento americano poteva comunque addivenirsi considerando che lo stesso risultava basato, oltre che sul consenso dei genitori naturali all’adozione da parte dalla coppia gay, anche sull’esito delle indagini effettuate dai servizi sociali circa la rispondenza di tale adozione al “miglior interesse” del minore. Ciò – si sostiene – sulla scorta di quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 536 del 1989, secondo cui, nel caso di provvedimenti di adozione di minori pronunciati da giudici stranieri sulla base del consenso prestato dai genitori naturali, quando ad esso si accompagni un “controllo giurisdizionale successivo”, non sarebbe ravvisabile una “aprioristica contrarietà” di tali provvedimenti ai principi fondamentali del nostro ordinamento.
6. In altri termini, e più semplicemente, la citata sentenza della Corte costituzionale, nella lettura offertane dalla Cassazione, consentirebbe il riconoscimento di adozioni estere alla sola condizione che il consenso ad esse prestato dai genitori naturali dell’adottato risultasse sottoposto ad un non meglio precisato “controllo giurisdizionale” da parte dell’autorità giudiziaria estera davanti alla quale il procedimento si è svolto.
Non sembra, però, che questa lettura corrisponda all’esatto e completo contenuto della sentenza in questione. Da essa, infatti, non emerge affatto che la Corte costituzionale abbia inteso attribuire decisiva rilevanza al solo consenso all’adozione da parte dei genitori naturali del minore, sol perché avallato poi dal successivo “controllo giurisdizionale” dell’autorità giudiziaria estera. Al contrario, essa ha messo chiaramente in luce che “pure l’adozione di minori stranieri, per essere efficace nel nostro ordinamento, non può fondarsi sulla mera prospettiva di miglioramenti materiali ed economici per il bambino” (in vista della quale i genitori naturali potrebbe essere appunto indotti a prestare il consenso), “ma presuppone quelle mancanze di cura e custodia, di essenziale sostegno materiale e di affetto che sole possono giustificare il ricorso alla famiglia sostitutiva”.
Occorre, in altri termini, che, anche in presenza del consenso dei genitori naturali e della successiva verifica giudiziale da parte del giudice estero, risulti comunque accertata la obiettiva sussistenza di quella che, secondo l’ordinamento italiano, è la condizione imprescindibile per potersi dar luogo all’adozione, e cioè, come si è già detto, la “situazione di abbandono” del minore derivante dalla riscontrata incapacità della famiglia di origine a provvedere alla sua assistenza morale e materiale. E di tale accertamento, quando non risulti che ad esso abbia provveduto l’autorità giudiziaria estera, deve farsi carico – sempre secondo la Corte costituzionale che richiama, in proposito, anche precedenti sentenze della Cassazione – il giudice italiano chiamato a decidere sul riconoscimento o meno del provvedimento del giudice estero.
Si legge, infatti, ancora, nella sentenza della Corte costituzionale, che il giudice italiano “ dovrà al riguardo compiere un’opera di interpretazione del provvedimento straniero e della situazione quale appare dal provvedimento stesso nonché dalla documentazione che sta a base di esso”. E qualora ciò non basti a dimostrare la effettiva sussistenza dello stato di abbandono, lo stesso giudice dovrà “svolgere ulteriori indagini avvalendosi o dell’autorità consolare (cfr. art. 33, secondo comma, d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200) ovvero degli Enti autorizzati di cui all’art. 38 legge n. 184 del 1983 (cfr. art. 13 D.M. 28 giugno 1985, in G.M n. 229 del 1985)”. Grava, inoltre, ancora, sul giudice italiano, sempre secondo la stessa sentenza, il compito di verificare che sussista anche “l’interesse del minore in stato di effettivo abbandono ad acquisire una famiglia idonea, sotto il controllo dell’autorità competente ad assistere l’infanzia abbandonata”.
7. Nulla di tutto ciò risulta avvenuto nel caso in questione. La Cassazione, infatti, come si è visto, si è invece accontentata della pura e semplice attestazione, nel provvedimento dell’autorità giudiziaria americana (per come riportato nella sua stessa sentenza) dell’avvenuto consenso dei genitori naturali all’adozione e del successivo recepimento, da parte della stessa autorità giudiziaria, delle conclusioni cui erano giunti i servizi sociali circa la pretesa rispondenza di essa al “miglior interesse” del minore. Il tutto senza che risultasse la benché minima notizia circa il come e il perché di quel consenso e circa le specifiche ragioni sulla base delle quali i servizi sociali erano giunti a quelle conclusioni.
Stando così le cose, appare quindi difficile, in conclusione, sottrarsi alla sensazione che la Cassazione, nel decidere come ha deciso, si sia fatta guidare da considerazioni in larga parte metagiuridiche, perseguendo la precisa finalità, di ordine essenzialmente politico, di compiere un altro passo sulla via che dovrebbe portare all’ammissione del pieno ed incondizionato diritto della coppie omosessuali all’adozione di minori e così anticipando o addirittura rendendo inutile, in prospettiva, quell’intervento del legislatore che, a rigore, ove si volesse realizzare un tale obiettivo, dovrebbe riguardarsi, in un regime bene ordinato, come l’unico strumento all’uopo utilizzabile.
Pietro Dubolino
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