Ma, in definitiva, la “complessità’” – su cui richiama la nostra attenzione Giancarlo Infante – è un’opportunità o piuttosto una maledizione?
Molti la vivono – e non e’ difficile capire perché – come qualcosa di pervasivo ed invadente, di incombente e fastidioso che complica la vita, crea tensione e costa un di più di fatica esistenziale.
Eppure, se appena ci chiediamo cosa sia davvero, ad esempio, in analogia al significato che il termine assume in ambito scientifico, siamo costretti a concludere che si tratta di una risorsa straordinaria.
Si discute, infatti, di processi “lineari” e di processi “complessi” anche nel dominio delle scienze naturali.
Anzi, è da questo ambito che i due concetti sono stati traslati pure nel dominio delle scienze sociali.
Ora non è scontato che si possa creare un parallelismo tra questi due campi, ma è pur vero che la realtà è una e quindi non deve sorprendere che alcune strutture di fondo ricorrano su fronti diversi o in ambiti applicativi differenti del nostro sforzo conoscitivo.
Se è così si possono considerare – in ordine a processi lineari o complessi – analogie tra discorso scientifico e discorso sociale che illuminano reciprocamente i due campi ed hanno pure qualche suggestione da offrire perfino alla politica.
A differenza di quelli lineari, i fenomeni naturali complessi sono caratterizzati da una instabilità dinamica intrinseca, tale per cui uno scostamento, per quanto minuscolo, dalle condizioni iniziali, determina un ampliamento smisurato, a ventaglio, dei possibili stati verso cui il sistema in osservazione evolve, cosicché il suo approdo conclusivo diventa aleatorio e del tutto impredicibile.
Tutto ciò non evoca, in fondo, le difficoltà cui oggi va incontro la politica quando si tratta di cogliere il nodo strutturale di determinati eventi, dipanando faticosamente l’insieme delle mille con-cause che si incrociano, retroagiscono l’una sull’altra, si avvitano tra loro in un intreccio inestricabile?
Si allarga a dismisura lo spazio delle opzioni possibili, dei mutamenti più o meno probabili, delle opportunità e dei rischi senza che un confine certo separi gli uni dagli altri.
Anche la politica deve adattarsi ad un nuovo modo di pensare, non più in termini apodittici come, sostanzialmente, imponevano le vecchie ideologie, bensì ricorrendo ad un pensiero ipotetico ed inclusivo che stia in equilibrio tra la capacità di formulare un giudizio e la costante apertura ad una revisione delle conclusioni raggiunte.
Non si tratta di relativismo, ma di realismo critico, della capacità, cioé, di comprendere, assecondare e, per quel che si può, governare la complessità accettandone la sfida, senza cedere alla pretesa di semplificare le cose potandone le articolazioni, sacrificando i germogli, cioè impoverendo radicalmente la ricchezza plurale della realtà così come si presenta ai nostri occhi.
In fondo, il populismo non è fondato anche su questa illusione, sulla pretesa di brutalizzate la complessità degli eventi, sulla presunzione che – con l’apparente forza di quello che una volta si chiamava “decisionismo” o con la rude sfrontatezza del “sovranismo” – si possano piegare le cose allo schematismo banale, eppure rassicurante di un pensiero debole?
In fondo, infatti, l’appeal del populismo sovranista non sta forse, anzitutto, nella sua supposta capacità di rassicurazione ?
Insomma, per un verso si dilata lo spazio e, contestualmente, si prolunga il tempo. La complessità mette in tensione spazio e tempo, la cognizione che abbiamo delle due categorie fondamentali che ordinano l’insieme delle nostre percezioni, delle nostre esperienze, del nostro vissuto.
Ma se l’excursus temporale dei processi naturali complessi si prolunga e si sfrangia al di là della durata, prevedibile, delle catene causali semplici e la stessa cosa succede negli analoghi processi sociali, occorre davvero che la politica sappia proiettare la sua azione su tempi lunghi, sia in grado, cioè, di un’azione strategica, guidata da una visione e questa, a sua volta, sia espressiva di una cultura antropologica.
Si potrebbe continuare, si potrebbe ampliare l’analogia alla fisica della complessità, alla dinamica dei processi caotici che alla lunga danno luogo quasi magicamente – è il tema del cosidetto “caos deterministico” – ad un ordine che non si capisce ancora da dove scaturisca e che, ad ogni modo, produce nuova informazione.
Se l’analogia regge vuol dire che anche la politica – al di là dell’ ingannevole ribollire quotidiano – ha pur sempre una sua struttura geometrica di fondo che ne attesta e ne giustifica il ruolo.
Ed è pure incoraggiante constatare come, anche sul piano sociale e civile, la complessità – come succede negli organismi viventi – riduce, anziché accrescere l’entropia, dunque è assolutamente creativa, arricchente.
Ultima considerazione: poiché la politica è il luogo elettivo in cui la complessità si manifesta, è giusto comprenderne l’oggettiva difficoltà e dunque concederle una attenuante. Alla politica, al di là del disdoro di cui oggi soffre, ed a chi continua a frequentarla, perfino a dispetto del dileggio cui rischia di andare incontro, per quanto non sempre e non da tutti meritato.
Domenico Galbiati
Immagine utilizzata : Pexels

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