Il mondo va di corsa. Siamo entrati in una fase di evoluzione accelerata, che sta mutando perfino la percezione che abbiamo del tempo e dello spazio.
Noi, invece, siamo rimasti al palo. Sostanzialmente incapaci – a dispetto della speranza, ad un tempo, seducente e vana, del “nuovismo”, sparso a piene mani – di “de-coincidere” da noi stessi. Incapaci di osservarci criticamente, di guardarci attorno con uno sguardo libero, che sia in grado di cogliere, tra le pieghe del divenire, le increspature che segnalano, forse, addirittura l’accesso ad un nuovo “evo” della storia, cioè l’avvio di una periodizzazione di lungo termine, quale l’umanità ha conosciuto poche volte prima di noi.
Pensiamo seriamente di incamminarci su questa via, portandoci impunemente appresso categorie interpretative, apparati concettuali, linguaggi e narrazioni di un tempo “altro”, già vissuto ed esausto, senza sottoporre per intero questa strumentazione di bordo ad un’ analisi critica severa? Non siamo in presenza di mutazioni puntiformi del patrimonio genetico custodito dalla nostra storia, che diano luogo a cambiamenti circoscritti del fenotipo, ma alla trasformazione del paradigma entro cui si sviluppa la vicenda umana.
Abbiamo abbandonato l’ancoraggio sicuro alla modernità: il pieno affidamento alla forza della ragione, la fiducia ingenua ed incondizionata nella scienza, la speranza di poter “possedere” il mondo, la convinzione che il “progresso” sia un cammino necessario, che sta, di per sé, nell’ordine naturale delle cose, cosicché, ininterrotto ed irreversibile, si fa da solo, secondo automatismi intrinseci che, infine, prescindono dalla nostra responsabilità.
Siamo approdati alla “transizione”, incamminati verso un “altrove” ancora velato e, dunque, necessariamente incerti, malsicuri e fragili. Viviamo la stagione del “frammento”, alla ricerca di una ricomposizione difficile, nella quale riguadagnare la consapevolezza che la vicenda umana e la progressione degli eventi che la esprimono abbiano un senso, capace perfino di riassorbire i momenti piu’ bui della storia. Quanti fenomeni che attraversano quotidianamente il nostro vissuto, vanno oltre i due versanti della conservazione e del progresso e chiedono di essere compresi secondo un nuovo ordine di criteri di cui ancora non possediamo la chiave?
Siamo certi che la diade “destra-sinistra” come l’abbiamo conosciuta fin qui, basti a contenere e dare forma dialettica alle contraddizioni ed alle mille criticità di un mondo percorso da imponenti fenomeni di trasformazione, che si intrecciano in modo tale che ognuno di essi funga da moltiplicatore degli effetti di tutti gli altri?
Ci rassegniamo a processi di semplificazione che, a costo di impoverire drasticamente la ricchezza incomparabile di un mondo plurale e complesso, consentano di comprimere le transizioni epocali che incombono nell’abito ossificato e rigido delle vecchie ideologie, frutto e testimonianza di un tempo cosi’ diverso dal nostro? Non dovremmo, al contrario, secondo la logica dei sistemi aperti, apprendere induttivamente dalla attualità delle cose fino a ripensare gli stessi assiomi da cui abbiamo preso le mosse?
Le culture politiche, tutte le culture politiche non dovrebbero – come su queste pagine abbiamo già sostenuto in più occasioni – accettare, invece, la sfida di un percorso che abbiamo chiamato di “rifondazione antropologica”? Cioè, non si tratta forse di riconsiderare i presupposti della propria visione del mondo alla luce dell’ “autocomprensione” che l’umanità ha di sé stessa, perennemente in fieri ed oggi rimessa a tema in modo radicale?
Non è opportuno affiancare alla categorizzazione “destra-sinistra” – che pur conserva le sue ragioni e non può, almeno per ora, essere impunemente abbandonata oppure assorbita in una nuova e differente cornice – la distinzione, mutuando dalla termodinamica, tra “sistemi aperti” e “sistemi chiusi” o addirittura isolati? Gli uni e gli altri possono essere adottati sia a destra che a sinistra. attraversando la linea di demarcazione che separa i due campi, così da rendere incerto e frastagliato il confine che li separa.
Vi sono principi da conservare perché il progresso non sia aleatorio ed effimero, affidato ad una sorta di meccanica necessità della storia, ma piuttosto incardinato su solide basi. Vi sono presunti progressi da cui guardarsi o addirittura recedere se non vogliamo compromettere sostanza, identità, valori della nostra comune umanità.
E la politica? Cosa ha a che vedere lo scenario di cui sopra con le vicende quotidiane del nostro discorso pubblico?
La politica ha a che vedere, eccome se ha a che vedere. Non si può costruire una posizione “altra”, alternativa alla polarizzazione rissosa tra destra e sinistra, se non ricercandone un fondamento che vada oltre la contingenza e le opportunità del momento.
Domenico Galbiati